Come è naturale, le conseguenze dello scoop del “New York Times” ricadranno, oltre che sui vertici dell'intelligence, sulle spalle di Benjamin Netanyahu, impegnato nella missione impossibile di prolungare la sua permanenza al potere eradicando completamente la presenza di Hamas nella Striscia di Gaza. La rivelazione per la quale Israele sapeva da un anno dei piano d'attacco del movimento fondamentalista e non aveva adottato nessuna contromisura giudicandolo “troppo ambizioso e difficile da realizzare” è il colpo ultimo e fatale che azzera, ce ne fosse ancora bisogno, qualunque credibilità del premier ed è la pietra tombale sul prolungamento della sua già longeva permanenza al governo. Tanto più perché a breve riprenderanno anche i processi contro di lui per corruzione, frode e abuso di potere.

Non è chiaro se Bibi sapesse ma questo è uno dei casi in cui entrambe le varianti sono comunque catastrofiche. Se sapeva è stato uno sciagurato. Se non sapeva ancora peggio. Significa che gli uomini messi al comando delle strutture dei servizi segreti, storicamente tra le più preziose dello Stato, non si fidavano del leader politico e non l'hanno voluto informare per motivi che non conosciamo e possiamo solo immaginare. Cautela? Diffidenza? Nessuna stima di un uomo sprezzante che esercita la sua funzione con arroganza?

Pur senza la copiosa messe di dettagli svelati dal giornale americano che ha potuto leggere il rapporto, l'ipotesi che il 7 ottobre non fosse stato un fulmine a ciel sereno e che erano filtrati avvertimenti trascurati con superficialità aveva già fatto capolino sui media israeliani, in particolare sul quotidiano “Haaretz”. Mancava il timbro dell'ufficialità alle voci ed ora eccolo.

Già Netanyahu doveva difendersi dall'accusa di una lunga sequela di errori che hanno contribuito alla buona riuscita della carneficina di Hamas. Anzitutto lo spostamento di trenta brigate dal fronte di Gaza alla Cisgiordania per appoggiare i coloni nel loro insensato progetto di espansione, compiacendo i partiti di destra fascista che sostengono il suo traballante esecutivo. La sottovalutazione di alcuni indizi come l'improvvisa assenza, nelle conversazioni captate dei telefonini di Hamas, di qualunque riferimento politico: ed era il segno che quanto si stava organizzando passava attraverso comunicazioni rudimentali come i pizzini. La caduta del pallone aerostatico da cui si controllava la Striscia attribuita a un guasto meccanico. E infine l'aver creduto che l'acerrimo nemico, nel cui statuto c'è la distruzione dello Stato degli ebrei, avesse optato nei fatti per una “hudna”, una tregua, tanto da proporre essendo accontentato che cinquantamila lavoratori frontalieri potessero ogni giorno entrare in Israele e tornare la sera a Gaza: una fiducia di tutta evidenza mal riposta.

E infine un dato meno fattuale e più ambientale, non per questo meno importante. La tracotanza di aver pensato che, in capo a una quindicina d'anni di conservazione dello status quo senza particolari problemi, la sicurezza fosse un dato acquisito non avendo risolto anzi avendola aggravata la questione dei palestinesi, il loro diritto a uno Stato e alla fine dell'occupazione che dura dal 1967. Al punto pazzesco di derubricare a ipotesi del terzo tipo o dell'irrealtà un'aggressione così sanguinaria ma così minuziosamente descritta. Proprio nella terra dove poco fa qualunque segnale di pericolo, anche minimo, veniva preso molto sul serio, persino troppo. Ma Benjamin Netanyahu non se ne poteva accorgere, accecato com'era da altre priorità, difendersi dai giudici, restare al comando anche a costo di un patto con qualche diavolo.

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