Joe Biden ha raggiunto il traguardo che ha inseguito per tutta la carriera: non la presidenza, ma il comando. Per anni ha detto con orgoglio che lui, in qualità di senatore, non aveva capi, era “his own man”, come si dice, non rispondeva ad altri che alla coscienza e alla linea del partito. Se sulla coscienza non ci sono elementi per sindacare, sulla linea si può dire che Biden si è trovato più spesso a determinarla che a subirla. Quando qualcuno cercava di costringerlo a fare qualcosa contro la sua volontà, lui sfoggiava sempre la stessa risposta: «La mia virilità non è negoziabile».

L’immagine dell’affabile battutista con gli occhiali a specchio, il simpatico zio canuto che straparla al pranzo del Ringraziamento è l’involucro che nasconde uno dei più solerti e aggressivi negoziatori di Washington, città di affiliazioni tribali e ferree dinamiche vendicative a cui nessuno può sfuggire.

Negli anni Novanta David Wilhelm, scafato politico della violenta Chicago paracadutato nella capitale per guidare il Partito democratico, ha fatto ritorno nella sua città dopo pochi mesi dicendo che «almeno lì ti pugnalano di fronte». Biden non è soltanto un prodotto di quell’ambiente, ma una sua personificazione, un pezzo dell’establishment che è rimasto saldo mentre tutto il resto della politica e della storia ruotavano vorticosamente.

Ci vuole un talento eccezionale anche per rimanere fermi, soprattutto per chi non è un rampollo di una dinastia politica ma il figlio di un imprenditore della Pennsylvania che negli anni Cinquanta si è trovato sull’ascensore sociale nella direzione sbagliata, passando da erede di una promettente fortuna costruita sul petrolio a onesto venditore di automobili.

Tre campagne (e mezza)

Nell’ecosistema in cui Biden è cresciuto ci sono i leader e i gregari: Biden appartiene alla prima specie. La campagna elettorale contingentata dalla pandemia, in cui il candidato ha fatto di tutto per non farsi notare (impresa ardua per una personalità esuberante), lasciando che il confronto scivolasse naturalmente in un referendum sulla decenza umana di Trump, non deve confondere sulle sue ambizioni: Biden aveva già tentato la corsa per la Casa Bianca due volte ufficialmente, e una per metà. 

Nel 1987 ha annunciato una candidatura che lo avrebbe reso il più giovane presidente dopo John Fitzgerald Kennedy. È finita in modo disastroso per via dell’abitudine di attingere a piene mani dai discorsi di altri politici - fra cui proprio Kennedy - senza citarli, imprudenza a cui si è aggiunto un vecchio saggio riaffiorato degli anni della scuole di legge che era ampiamente copiato da un articolo scientifico.

È quel tipo di peccati che l’America perdona malvolentieri, anche se a Biden è rimasto sempre il sospetto che qualcuno o qualcosa si sia mosso contro di lui, visto che il candidato che alla fine ha ottenuto la nomination, Mike Dukakis, aveva magagne simili nel curriculum. Lui ha detto che si ritirava sotto «l’ombra esagerata dei suoi errori del passato», ed è tornato a pianificare la mossa successiva.

La seconda volta è stata nel 2008, quando un senatore di prima nomina che il già anziano Biden giudicava inesperto e un po’ troppo arrembante ha sorpreso e rapidamente sbaragliato il parterre di aspiranti candidati.

La mezza volta è stata invece nel 1992, quando con ottimo senso del calcolo politico ha valutato che la sua opposizione alla prima Guerra del Golfo in Senato non lo avrebbe portato lontano. George H. W. Bush aveva raggiunto il più alto tasso di gradimento presidenziale nella storia americana recente con l’operazione Desert Storm, capitale di consenso poi rapidamente sperperato sul terreno fiscale, e non era politicamente saggio piazzarsi sulla sponda opposta di quella storia.

Biden si è presentato in queste elezioni con l’immagine dell’uomo alla mano, quello che rappresenta il popolo perché ne fa parte, uno con cui si mangerebbe volentieri un piatto di uova strapazzate sul classico tavolo di formica di un diner di periferia, ma in realtà capita raramente di mangiare uova strapazzate con uno che è stato senatore per 35 anni, ha guidato la Commissione esteri e giustizia, ha fatto naufragare la candidatura di un giudice della Corte suprema, ha negoziato con sette amministrazioni, è stato vicepresidente per otto anni e quando è balenata la possibilità che gli offrissero la segreteria di Stato ha fatto recapitare il suo rifiuto preventivo: aveva più potere dov’era.

Le tappe legislative

Alla vicenda di legislatore di Biden si potrebbe dedicare l’ala di una biblioteca, ma alcuni tappe fondamentali scandiscono il percorso. Innanzitutto, la sua criticata opposizione, negli anni Settanta, all’integrazione razziale del trasporto pubblico, una posizione che risulta particolarmente odiosa oggi e che allora rispondeva non solo a una sensibilità generalmente diffusa, ma a quella particolarmente sentita nel suo stato di adozione biografica e politica, il Delaware, stato noto soprattutto per le generosissime politiche fiscali che attraggono gli affari di tutta l’America.

Quand’era a capo della commissione giustizia ha organizzato e condotto l’opposizione alla nomina del conservatore Robert Bork alla Corte suprema, manovra riuscita con successo dopo una tesissima serie di audizioni in cui il senatore ha messo in crisi, con notevole abilità retorica, le tesi originaliste del conservatore nominato da Ronald Reagan.

Più controverso, per i democratici di oggi, è stata la stesura della legge per il contrasto al crimine del 1994, uno dei provvedimenti che ha alimentato l’incercarcerazione di massa (l’anno scorso lo ha definito un «grande errore»), e la firma del Defense of Marriage Act, la legge che ammetteva il matrimonio soltanto fra uomo e donna e che la Corte suprema ha di fatto annullato nel 2015, legalizzando il matrimonio fra persone dello stesso sesso.

Per navigare in così tante stanze per così tanti anni, del resto, Biden ha dovuto sempre tenere un occhio alla base elettorale e uno allo spirito del tempo, cosa che gli ha permesso di evolvere con disinvoltura su molti temi, dall’aborto alla giustizia penale, dal matrimonio alla politica estera. Sul fracking si vedrà.

Se la storia recente ce lo ha consegnato come “vicepresidente”, non c’è prefisso che si addica meno alla personalità di Biden di “vice”. Quando Barack Obama gli ha proposto la carica, era ben consapevole di come il primo vicepresidente della storia americana, John Adams, aveva definito il ruolo: «Il più insignificante che l’immaginazione umana abbia mai prodotto». Lui stesso aveva elaborato una definizione appena più colorita: «Nel momento in cui accetti di essere il vice di qualcuno, ti sei tagliato le palle». 

Per evitare la (politicamente) dolorosa eventualità, il navigato negoziatore Biden ha accettato, ma ponendo alcune condizioni: essere sempre l’ultimo ad uscire dalla stanza in cui c’è il presidente e la responsabilità di alcuni dossier fondamentali. Poco dopo l’insediamento dell’amministrazione Biden guidava il negoziato per lo stimolo economico dopo la crisi finanziaria, gestiva i rapporti con l’industria automobilistica in crisi, aveva in mano il dossier delle banche, si occupava del ritiro delle truppe dall’Iraq, delle operazioni in Afghanistan, del medio oriente. Era talmente attivo nelle dinamiche della Casa Bianca che Obama, attraverso la consigliera più fidata, Valerie Jarrett, gli ha fatto sapere che non gradiva che fosse lui a fare gli onori di casa tutte le volte durante i meeting con il presidente.

La sua tribù

Nel tempo Biden ha riempito quella Casa Bianca che Obama aveva promesso di depurare dalle influenze esterne dei suoi consiglieri, una truppa di maschi, bianchi con i capelli grigi in cui molti hanno varcato spesso il confine poroso fra politica, lobbying, burocrazia e l’opaco mondo delle consulenze. Fra questi ci sono i fratelli Mike e Tom Donilon, istituzioni washingtoniane che si muovono fra gruppi di pressione e politica internazionale. 

Quando ha nominato il fedelissimo Steve Ricchetti come capo di gabinetto, Dana Milbank del Washington Post ha scritto: «Ricchetti è passato attraverso più porte girevoli di un fattorino del Mayflower Hotel». Biden è un tribalista che pretende e assicura fedeltà, in ottemperanza alle antiche regole di Washington, e quelli che sono nel suo inner circle da una decina d’anni vengono ancora chiamati «i nuovi».

Nel gruppo ristretto che si è ritrovato la prima volta per pianificare la campagna elettorale (età media escludendo il candidato: 62 anni) c’erano i fidati consiglieri con cui il candidato ha attraversato molte peripezie. Il collante ella tribù di Biden è anche di tipo politico. Molti democratici cresciuti nell’era di Reagan hanno interiorizzato l’idea che la chiave per affermarsi sia una visione moderaata, l’arte del negoziato, la capacità di trovare compromessi. 

«La candidatura di Biden si basa sulla scommessa che, quando il pendolo della storia oscillerà lontano da Trump, andrà verso l’incrementalismo e l'esperienza, e non verso lo zelo giovane dei progressisti», ha scritto Evan Osnos, giornalista del New Yorker, nella sua recente biografia di Biden, segnalando ancora una volta che il carattere del candidato non è disegnato per accordarsi con il fermento della parte più giovane e radicale del partito. 

Biden avrà presto l'occasione di esercitare anche nella forma quella pragmatica vocazione per il potere che ha a lungo incarnato nella sostanza. Voto postale permettendo.

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