Infine, i due grandi si incontrano. Il vertice tra Joe Biden e Xi Jinping si svolgerà prima attorno a una tavola da pranzo imbandita nella tenuta Filoli di Woodside vicino a San Francisco, poi in una passeggiata tra i due presidenti; infine ci sarà il vertice fra i rispettivi consiglieri per la sicurezza nazionale.

Il momento è propizio per ricostruire un accettabile livello di fiducia tra Cina e Stati Uniti. Non per una vacua speranza, che si scontra chiaramente con le dinamiche strutturali di una potenza in ascesa – la Cina – sempre più intenzionata a modellare lo spazio che la circonda a propria immagine e somiglianza e di una potenza dominante – gli Stati Uniti – intenzionata a contenerne l’assertività, ma perché Washington e Pechino si trovano in un momento particolare.

In cerca di un successo

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Biden arriva al summit Apec alla ricerca di un successo di politica estera. Non solo per vantarlo all’inizio della corsa elettorale di fronte all’elettorato americano – che solo in minima parte orienta il proprio voto sull’azione esterna americana – ma anche per consolidare il fronte interno, congressuale ed esecutivo, che accusa il leader di non aver portato a casa alcun risultato internazionale. In effetti, se si guarda al record di Biden le statistiche non sono rosee.

Complici la gestione di due conflitti, uno in Europa e uno nel vicino oriente, due crisi su Taiwan all’interno di una cornice di tensioni, il livello più alto di test missilistici nordcoreani, Biden si avvicina al 2024 con un’astenia da politica estera. Il risultato ottimale per l’inquilino della Casa Bianca sarebbe strappare a Xi una dichiarazione anche vagamente conciliatoria su Taiwan e una promessa di intercedere con Russia e Iran per l’allentamento delle tensioni nei due teatri di guerra.

Più realisticamente, Biden porta a casa un patto sul controllo dell’export di fentanyl. Xi sbarca a San Francisco meno forte di un anno fa, quando usciva vittorioso dal Congresso del Pcc. Il rallentamento dell’economia nazionale non è un buon segno per il leader di un paese che fa del proprio status di potenza in ascesa la pietra angolare della propria politica estera e della propria retorica internazionale.

La frenata economica, inoltre, fornisce un assist all’opposizione interna aggiungendosi ai numerosi episodi controversi dell’ultimo anno. Si pensi alla scena di Hu Jintao scortato fuori dall’aula durante il Congresso, oppure alle epurazioni ai vertici ministeriali degli Esteri, della Difesa e del comando della Forza missilistica.

Allentare le restrizioni

Per scongiurare la stagnazione, Xi punta all’allentamento delle restrizioni all’export cinese, eredità di Trump confermata e rafforzata da Biden ma ha orecchie ben poco aperte su Taiwan, vertenza esistenziale per la sua leadership. Gli establishment della sicurezza nazionale puntano alla riapertura dei contatti militari-militari, disattivati dopo la visita di Nancy Pelosi a Taiwan dell’agosto 2022.

La ricostruzione della fiducia tra i due Paesi passa anche per la riattivazione di canali comunicativi e di incontro tra le due verticali militari. Esempio concreto sono i recenti movimenti della portaerei Reagan nel Mar Cinese Orientale a poca distanza da quelli di una nave da guerra cinese.

Nel passato recente, si sono verificati episodi di “quasi-collisione” tra vascelli americani e cinesi durante operazioni Fonop americane a cui i cinesi hanno risposto con manovre giudicate da Washington spericolate. Il ripristino di contatti militari garantirebbe comunicazione in queste evenienze e la ripresa degli incontri tra i vertici delle due amministrazioni militari permetterebbe maggiore, seppur limitata, trasparenza anche sul build-up militare.

Le aspettative per l’incontro sono tante, i vincoli al risultato ancora di più. Ma in tempo di competizione tra grandi potenze, ogni lasciata è persa.  

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