Joe Biden si è insediato sedici mesi fa. Rileggendo adesso i commenti di allora era difficile immaginare che il presidente avrebbe toccato livelli così alti di impopolarità. Da un lato si immaginava anche che il dibattito pubblico si sarebbe concentrato su altri temi – meno sulla politica estera (tema sul quale, in realtà, Biden raccoglie più consenso che sugli affari interni) e più su un rilancio dell’economia agganciato a una maggiore giustizia sociale, in linea con le promesse elettorali – dall’altro era forte il timore che l’ambiziosa agenda del presidente si arenasse velocemente nel pantano istituzionale del Congresso. I timori si sono rivelati fondati, e negli Stati Uniti prevale la sensazione di un presidente già “anatra zoppa” persino prima del voto di metà mandato, nel quale rischia di perdere la maggioranza del Congresso sia al Senato che alla Camera dei rappresentanti.

A rendere questo umore ancora più forte, la sensazione di un presidente in difficoltà fisica e mentale: le potenti invenzioni della propaganda di Donald Trump – “sleepy” Joe, ovvero l’epiteto che nel 2020 avevo sostituito il “crooked” Hillary del 2016 – continuano a viaggiare nel sistema mediatico. E poi il sistema dei sussurri e delle “verità celate al grande pubblico” che viaggiano online, e che “raccontano cosa succede davvero” a proposito dello stato di salute mentale del presidente (l’America è ancora impregnata di complottismo tanto quanto lo era durante le presidenze Obama e Trump). Oggi gli umori delle democrazie passano anche attraverso questi meccanismi, in una misura che non va mai sottovalutata.

Polarizzazione dall’alto

Vanno poi presi in considerazione due aspetti fondamentali, attraverso i quali contestualizzare i dati dell’attuale fase politica negativa di Joe Biden. Il primo è il persistere del “paradigma del 6 gennaio”: il paese vive in una condizione permanente di guerra civile fredda, nella quale il richiamo alla “guerra giusta” è uno strumento potente di mobilitazione nelle primarie di partito e nelle elezioni locali e generali di novembre. Lo abbiamo visto ora nelle primarie in corso per l’appuntamento di metà mandato, dove molti candidati trumpiani hanno trovato la via della candidatura.

Questo conflitto è alimentato da entrambi i campi, ma i colpi più pesanti sono sferrati da quello repubblicano, in linea con una tradizione ormai trentennale che ha conosciuto un prima e un dopo grazie al leader repubblicano Newt Gingrich, che negli anni Novanta guidò l’opposizione alla presidenza Clinton. Lo storico Michael Kazin, invece, parla di una guerra culturale che dura da più di cinquant’anni, ovvero dai tempi del confitto aperto da giovani, donne e minoranze su secolarizzazione, diritti e distribuzione del potere all’interno della società americana.

È una strategia di polarizzazione dall’alto che sfrutta faglie reali di conflitto che attraversano gli Stati Uniti attorno ai temi della “razza”, del genere, degli stili di vita, delle vocazioni produttive delle diverse aree del paese, della religione, delle generazioni, del lavoro. Alcune di queste fratture conoscono cicliche esplosioni di violenza, che ne rappresentano l’escrescenza patologica. Come l’attentato razzista di Buffalo del 14 maggio, dove hanno perso la vita dieci persone per mano di un giovane bianco che crede alla teoria complottista della “grande sostituzione”, per la quale esisterebbe un élite globalista che intende invadere gli Stati Uniti con i migranti, allo scopo di sostituire i bianchi cristiani (abbiamo avuto echi di queste posizioni nelle elezioni francesi grazie a Eric Zemmour).

Teorie che spesso trovano la strada del mainstream mediatico: secondo un’analisi del New York Times, un noto anchorman televisivo del canale Fox News, Tucker Carlson, ha citato la teoria 400 volte, fino a sostenere che «il Partito democratico sta cercando di sostituire gli elettori attuali con elettori più obbedienti provenienti dal terzo mondo» (il virgolettato proviene da una traduzione apparsa su Valigia Blu il 21 maggio). La tesi, secondo un sondaggio dell’Associated press del dicembre 2021, sarebbe abbracciata – sebbene per alcuni solo parzialmente – dal 50 per cento degli elettori repubblicani.

Rischio paralisi

Tutti gli studi sulla polarizzazione politica del sistema politico americano mostrano una radicalizzazione crescente degli elettorati, in particolare di quello repubblicano. Un trend di lungo periodo che non arretra, e che trova terreno fertile per alimentarsi nel sistema istituzionale. E qui arriviamo al secondo punto. Il sistema politico americano sembra non sopportare un livello di polarizzazione così alto: il sofisticato sistema dei “checks and balances”, grazie al quale si può imbrigliare tanto la tirannia della maggioranza che le aspirazioni napoleoniche di un presidente, per funzionare ha bisogno di un certo grado di omogeneità delle classi dirigenti. Il sistema di separazione dei poteri americano può mitigare e impedire colpi di mano e fughe in avanti politico-istituzionali, ma può anche portare il sistema alla paralisi.

A oggi basta il regolamento di voto del Senato, per il quale servono quasi sempre super-maggioranze di 60 eletti su 100 per approvare un provvedimento, per impantanare l’azione di un partito e del suo presidente. Nella contingenza politica di questi anni questa maggioranza non è appannaggio di nessun partito, e il risultato è la semi-paralisi.

Biden ne è l’esempio plastico. Egli è partito con la baldanza del neo-presidente: come Trump, ha rovesciato una serie di decreti esecutivi firmati dal suo predecessore, di valore sia politico che simbolico e ha dato seguito ad alcune promesse elettorali. Per esempio, la revoca del Muslim ban e interventi di rilievo sulla politica ambientale: in tutto ha firmato 42 decreti nei primi cento giorni, un numero mai così elevato dai tempi dell’amministrazione Truman (che però stava gestendo nientemeno che il Secondo dopoguerra). Azioni che la Casa Bianca può compiere in autonomia, ma che un futuro presidente repubblicano potrebbe annullare con la stessa rapidità.

Ugualmente, i democratici hanno sfruttato le pieghe del regolamento del Senato per riuscire ad approvare un imponente pacchetto economico da 1,9 trilioni di dollari, così da non arenarsi nelle secche dell’ostruzionismo parlamentare. Con questo grande stimulus post-Covid approvato il 10 marzo 2021, il cosiddetto American rescue plan, l’azione riformatrice si è sostanzialmente esaurita.

Il vecchio senatore che doveva costruire ponti con i repubblicani per aiutare l’America a riprendersi dopo la crisi pandemica, non ha potuto e saputo travalicare la legge del conflitto permanente che attraversa gli Stati Uniti da almeno tre decenni. Ha trovato un ostacolo permanente nel Partito repubblicano e in almeno due senatori democratici, che ne hanno consumato la spinta propulsiva, la “narrative” e l’azione riformatrice.

Battaglie politiche

Colpe anche sue? Certo. Però, nel frattempo, gli americani si preoccupano per l’inflazione – che neutralizza gli effetti benefici degli aumenti di occupazione – e per la violenza urbana (tema tornato di moda). Persino Trump, che a questo stesso punto della sua presidenza aveva un indice di approvazione molto basso, al 40 per cento, a sedici mesi di distanza dalla sua elezione era più popolare.

Non a caso, ora, il grande tema della campagna elettorale di metà mandato potrebbe essere quello dell’aborto, a seguito della fuga di notizie sull’orientamento della Corte Suprema (propensa, a quanto pare, a revocare il diritto all’interruzione di gravidanza su scala federale). La paralisi di sistema e la polarizzazione politica si scarica su grandi battaglie politiche simboliche nazionali, e poi nel livello statale, dove si combatte all’arma bianca per l’implementazione reale delle norme, anche in virtù dei vuoti lasciati a livello federale. Su questa battaglia i democratici sperano di rianimare una parte del loro elettorato.

Nel frattempo, la “grande tenda” democratica sembra essere sempre più fredda nei confronti del presidente: tante istanze, domande, ambizioni, di un elettorato che reagisce con frustrazione al potere di veto della minoranza repubblicana e alle incertezze del vecchio Joe.

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