La bandiera della Serbia non sventola più dal balcone del municipio di Zvecan. Per gli albanesi, una liberazione. Per i serbi, un’occupazione. Uomini in tenuta antisommossa presidiano l’edificio, il filo spinato a dividerli dai manifestanti serbi. Sono le forze speciali del Kosovo, mandate dal governo di Albin Kurti a garantire l’insediamento dei nuovi sindaci eletti nei comuni di quel limbo maledetto che è il nord del Kosovo. È la scintilla che fa divampare l’incendio.

I sindaci, tutti di etnia albanese, sono l’espressione di un voto boicottato dalla stragrande maggioranza della popolazione, di etnia serba.

Le elezioni erano state indette da Pristina per riempire il vuoto lasciato dai rappresentanti serbi, dimessisi in segno di protesta contro la mancata attuazione degli accordi di dialogo Belgrado-Pristina siglati dieci anni fa con la mediazione dell’Ue. A gettare benzina sul fuoco, la decisione di schierare le forze speciali per garantire l’ingresso dei sindaci nelle sedi dei municipi.

«Non siamo una “milizia fascista” come dice Kurti. Siamo comuni cittadini e siamo stufi di vivere in una specie di zona di guerra». si sfoga Miodrag Milićević, direttore dell’ong Aktiv, associazione di Mitrovica nord che promuove il dialogo interetnico. Un dialogo che secondo Miodrag è andato in frantumi dall’arrivo di Kurti al potere: «Il governo sostiene che il dialogo con la comunità serba è incardinato nella sua politica, ma la sua scelta è stata di inviare uomini armati fino ai denti e non magari dei rappresentanti per parlare con noi: se queste sono le premesse, cosa ci si può aspettare?».

Lo stesso Miodrag è finito nel mirino delle forze speciali. Lo scorso novembre è stato fermato, perquisito e aggredito mentre era in viaggio, destinazione Sarajevo. «Le intimidazioni stanno diventando business as usual», spiega l’attivista che con la sua ong ha raccolto 41 segnalazioni in appena un mese e mezzo. All’ennesima provocazione, la comunità serba è scesa in piazza.

E in piazza ci rimane ancora, danzando sul filo di una tensione permanente. “Vogliamo la pace, non gas lacrimogeni e bombe shock” recita un cartello brandito dai manifestanti.

Nei giorni scorsi Zvecan è stato il teatro di una guerriglia urbana con tanto di lancio di molotov, sassi, mattoni e di esplosioni di colpi di arma da fuoco. Il bilancio è di un’ottantina di feriti, tra cui 30 soldati del contingente Nato in Kosovo (Kfor).

Circolo vizioso

«Abbiamo scongiurato una strage, abbiamo salvato la vita a una decina di poliziotti kosovari intrappolati nella folla, una folla aizzata da facinorosi mischiati alla gente comune che dimostrava pacificamente». racconta il comandante di Kfor, Angelo Michele Ristuccia che punta il dito contro l’incapacità di Belgrado e Pristina di spezzare il circolo vizioso che ha precipitato il nord del Kosovo in uno stato di crisi permanente. «Pensare che questa sia una crisi circoscritta temporalmente è un errore di valutazione. L’origine di tutti i problemi - spiega - è la sfiducia reciproca tra le parti che da un lato, impedisce l’attuazione degli accordi e dall’altro si riverbera sui rapporti tra serbi e albanesi del Kosovo, sulle loro percezioni e quindi sulla lettura degli eventi. E così anche un evento apparentemente poco significativo, frutto di un calcolo sbagliato o di comprensione, impatta su un equilibrio estremamente fragile».

Insomma, basta una bandiera o un murales per dar fuoco alle polveri.

E con le sue azioni, il governo Kurti non ha fatto che intensificare le tensioni e aumentare l’instabilità, è il giudizio unanime del fronte occidentale. Ed è proprio da Washington, che quindici anni fa tenne a battesimo la nascita del Kosovo, che è arrivata la reazione di condanna tanto forte quanto inedita. Al segretario di Stato Antony Blinken sono seguiti gli altri, dal francese Emmanuel Macron al capo della diplomazia europea, Josep Borrell.

L’Europa, scossa dall’invasione russa in Ucraina, non può permettersi l’apertura di un nuovo fronte. Vietato quindi creare nuove occasioni di attriti. E d’altronde proprio con questo spirito l’Ue aveva fatto ripartire a fatica un dialogo, quello tra Serbia e Kosovo, rimasto incagliato da anni.

Kurti però respinge al mittente le accuse: «Il vuoto istituzionale creato dalle dimissioni dei serbi va colmato, è un assurdo accettare i sindaci ma non il loro posto di lavoro», è il ragionamento del premier che di ritirare le forze speciali dal nord non vuole sentirne parlare. «Non consegno il paese nelle mani della milizia fascista di Vucic (presidente della Serbia, ndr)» ha rintuzzato.

Il braccio di ferro tra Pristina, da una parte, e Washington e Bruxelles dall’altra, divide il paese.

«Il nord fa parte del Kosovo, è ora che i serbi riconoscano la realtà e che lo Stato prenda il controllo di questo territorio una volta per tutte, dice Sherif, proprietario di un ristorante nella parte sud di Mitrovica, popolata da albanesi.

Racconta della convivenza con i serbi «non posso dire di avere amici, ma le relazioni con loro sono tranquille, questi – spiega – sono solo giochi della politica». E su questo piano Sherif sposa su tutta la linea l’operato del premier: «Sono deluso – dice – dagli Stati Uniti, i disordini nel nord sono stati orchestrati da Vucic, nessuno ha puntato una pistola contro i serbi: erano liberi di partecipare alle elezioni».

Ricucire lo strappo

Ma non tutti la pensano così. È troppo strategico e profondo il rapporto con Washington per poter esser messo in discussione da un azzardo.

«Le relazioni inter-etniche sono manipolate dalla Serbia che ha interesse a destabilizzare il Kosovo, su questo siamo d’accordo, ma la risposta è costruire un dialogo con le minoranze, averne rispetto, senza imporre la propria egemonia, altrimenti si cade nella trappola di Vucic», spiega Berat Buzhala, ex deputato e giornalista. Berat è da giorni nel mirino della propaganda filo-governativa per aver criticato apertamente il premier. «La nostra agenda è stare con l’occidente, con gli Stati Uniti e l’Ue. Tutto ciò che è fuori, va contro i nostri interessi nazionali» attacca il giornalista. Che accusa Kurti di aver fatto guadagnare punti alla Russia, gettando il paese nell’instabilità: «C’è solo una persona che vuole destabilizzare il Kosovo, ha un nome e un cognome, si chiama Vladimir Putin. Prendere questo tipo di decisioni fa il suo gioco, non il nostro, non quello dei nostri alleati».

Ora la diplomazia è al lavoro per ricucire l’ennesimo strappo.

Il vertice della Comunità politica europea a Chisinau è stata un’occasione per riflettere sul da farsi. Sul tavolo è planata una proposta del cancelliere tedesco, Olaf Scholz, e di Macron, che ne hanno discusso con Vucic e la presidente del Kosovo, Vjosa Osmani, alla presenza di Borrell. Indire nuove elezioni, coinvolgere la comunità serba, istituire l’associazione dei comuni a maggioranza serba, un regime speciale per la minoranza previsto negli accordi di Bruxelles del 2013 e rimasto finora lettera morta. Queste sono le richieste – quasi un ultimatum – recapitate agli eterni nemici.

Per evitare di spingere il paese ancor più sull’orlo del precipizio.

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