Ritirata americana senza fanfare, in altalena. L’accordo di Doha tra talebani e Donald Trump firmato l’anno scorso per «portare la pace in Afghanistan» cita il calendario gregoriano, il calendario islamico lunare e quello solare. In quel testo il 1° maggio 2021 garantiva la partenza di tutte le truppe straniere dal paese. Poi il presidente Joe Biden ha voluto spostare simbolicamente la data all’11 settembre, origine della spedizione militare, della guerra più lunga nella storia degli Stati Uniti che finisce senza una vittoria. Ma adesso il ritiro è anticipato al 31 agosto perché «la velocità significa sicurezza» e un’altra generazione di soldati americani non deve più morire in quel paese.

All’improvviso gli afgani che abitano attorno alla base aerea di Bagram, l’installazione più pregiata dell’intero paese, protetta in modo spettacolare dalle montagne, hanno visto che là dentro alla sera non ci sono più luci accese. Quello era il centro nevralgico delle operazioni militari occidentali, circa 10mila uomini. Nel 2007 perfino il vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, arrivato con un aereo militare in segreto, costretto poi dal maltempo a cambiare programma, era stato atteso puntualmente in pieno giorno all’uscita principale da una esplosione con una cinquantina di morti e feriti. Oggi questa base è come una cisterna senza acqua in una zona desertica. Ne avevano preso possesso gli inglesi dei reparti speciali dopo la distruzione delle Torri a New York a bordo di motociclette da cross, sembrava di vedere un film.

I soldati di Ankara

Adesso a Kabul si annunciano giorni orgogliosi per la bandiera turca, mentre gli americani e i loro alleati si preparano alla evacuazione totale. I soldati di Ankara proteggeranno l’aeroporto della capitale, ultima via d’uscita per i diplomatici stranieri se i talebani entreranno nei palazzi del potere. Le ambasciate chiuse e vuote dimostrano sempre che un paese è finito ai margini della scena internazionale. I turchi hanno già precisato che garantiranno la sicurezza dell’aeroporto ma che non parteciperanno ad azioni militari. La distinzione in apparenza è sottile, sembra un bizantinismo. In realtà questi militari hanno la mezzaluna dell’islam nella loro bandiera, la moschea in caserma, ma sono anche membri della Alleanza atlantica dai primi tempi della Guerra fredda, hanno addestrato i soldati afghani negli anni Sessanta del secolo scorso, e non sono mai stati il primo bersaglio della guerriglia. Offrono garanzie di persuasione, di relativa convivenza con i talebani, nonostante le dichiarazioni ufficiali.

La storia si ripete con ostinata monotonia: nel 1989 l’Armata rossa partì sconfitta dai mujaheddin, sostenuti da Stati Uniti e Arabia Saudita. Gli occidentali chiudevano le loro ambasciate a Kabul, ma quella turca restò aperta, sventolando la mezzaluna bianca in campo rosso. A quel tempo la Turchia rappresentava un baluardo contro le deviazioni islamiche fanatiche, rispettava ancora il progetto laico di Ataturk, aspirava a un ingresso in Europa, non criticava Bruxelles con parole ruvide e gesti ostili, non si impegnava militarmente in Libia e in Siria, non avviava attorno a Cipro ricerche petrolifere provocatorie, non conosceva le nostalgie imperiali ottomane del sultano Erdogan, e si considerava un alleato autorevole degli Stati Uniti. Per anni Incirlik era stata la base aerea turca perfetta per gli aerei americani impegnati a tenere d’occhio una grande parte dell’Asia.

Per i turchi difendere oggi l’aeroporto di Kabul significa affiancare le loro iniziative avviate da tempo sul dossier afghano, in competizione con il Qatar. Con circa seicento soldati, che potranno salire a mille, in una sola mossa recuperano le relazioni degradate con gli Usa e quelle con la Nato. Anche l’ospitalità e il sostegno turco fornito da anni al generale Dostum, di etnia uzbeka, padrone brutale e sanguinario del nord Afghanistan, signore della guerra anticomunista, poi esule sul Bosforo, poi salito al rango di vicepresidente a Kabul, garantisce contatti utili.

Contatti che hanno un precedente significativo già nel lontano 1928 quando per la prima volta un gruppo di ragazze afgane senza velo, su un’auto scoperta, partivano per andare a studiare in Turchia. Così testimoniano alcune foto della rigorosa, illuminante Collezione Schinasi. Poche settimane dopo erano già di ritorno. Il re progressista Amanullah, che aveva avviato la modernizzazione del paese e l’emancipazione femminile sulle orme di Ataturk nel decaduto impero ottomano, aveva perso il suo rango per opera dei capi tribù e dei mullah più oscurantisti.

In verità a Kabul, nel 1989, a fianco della solitaria bandiera turca sventolava anche quella italiana. Non per decisione intrepida della Farnesina, ma per disobbedienza tenace di padre Angelo Panigati, barnabita, ufficialmente numero tre dell’ambasciata per tutelare così la sua posizione di unico sacerdote in terra afghana, secondo un accordo siglato da re Amanullah con Mussolini. Si era rifiutato di rientrare in Italia con il pretesto che il suo stipendio lo pagava il Vaticano, che non aveva ricevuto alcun ordine di partenza. In realtà era affezionato all’Afghanistan come pochi. Furono i turchi a dare le prime notizie su di lui vivo dopo un bombardamento che lo aveva catapultato per trenta metri direttamente sull’altare della cappella.

Oggi secondo i consulenti di Washington il governo afgano del presidente Ghani potrebbe restare in piedi per sei mesi fino a un massimo di due anni. È una previsione avventurosa. Quando partirono i sovietici e la guerriglia annunciava la conquista di Kabul l’ambasciatore americano, con la bandiera a stelle e strisce ripiegata sotto il braccio, circondato dai marine con le armi in pugno, sulla pista dell’aeroporto dichiarava: «La città cadrà al più tardi in poche settimane». Restò alcuni mesi a New Delhi per vedere che la sua profezia non si realizzava. Tornò in patria e successivamente fu nominato consigliere diplomatico del vicepresidente degli Stati Uniti. Solo tre anni dopo, nel 1992, vide in televisione il collasso del regime comunista e i mujaheddin prendere Kabul. Nel 1996 poi arrivarono i talebani che si ritirarono senza combattere alla fine del 2001. Arrivi e partenze che ogni volta scatenavano ansie, fughe, rassegnazione tra gli afgani. Come oggi.

A parte i calcoli strategici gli uffici della immigrazione negli Stati Uniti devono ancora accogliere le richieste di nazionalità dei circa 18mila afgani che durante gli anni della guerra hanno lavorato come interpreti, autisti, ingegneri, impiegati, guardie della sicurezza e che i talebani hanno in vari casi già minacciato, con un seguito di almeno trecento uccisioni. Poi ci sono gli oltre 50mila familiari di questi bersagli civili.

Il loro reclutamento venti anni fa aveva scardinato la fragile amministrazione del paese. Tutta la macchina bellica americana per installarsi aveva risucchiato dove possibile funzionari statali di qualche competenza. I compensi partivano subito da circa mille dollari, anche un semplice autista scavalcava medici, magistrati locali, professori fermi a cento dollari, pagati dallo stato con ritardi di mesi.

Il limbo di Guam

Ma questi collaboratori locali così velocemente arruolati oggi non ricevono un ascolto solerte. La burocrazia oltre Atlantico ha avuto bisogno mediamente di tre anni e mezzo per concedere un visto. E quindi è previsto un limbo temporaneo nell’isola di Guam, certamente una zona sicura, lontana dalle rappresaglie, con spiagge tropicali e barriere coralline, che forse producono anche spaesamento e incertezza rispetto alle montagne e alle zone desertiche afgane. Lo stesso era avvenuto alla partenza degli americani dall’Iraq, dopo la caduta di Saddam, con le minacce di morte recapitate di notte, direttamente nelle case di chi aveva lavorato per le truppe straniere. E scene indimenticabili di panico, di isteria erano state immortalate a Saigon, attorno alla ambasciata Usa, con i vietnamiti abbarbicati alle cancellate e agli elicotteri dei marine appoggiati sul tetto. Immagini forse più dannose, per l’opinione pubblica, di una violenta, grande battaglia persa.

Mentre i soldati americani se ne vanno si scioglie anche tutta la compagine di contractor che in vari modi hanno affiancato la guerra, dalla logistica alle prigioni private. Complessivamente sono circa 20mila, un terzo sono americani. E siccome per i generali di Washington da oltre settant’anni la guerra comincia ovunque prima di tutto con l’aviazione anche tra le forze armate afghane si aprirà velocemente la falla di una flotta aerea senza manutenzione, partiti i tecnici stranieri e finiti i pezzi di ricambio. Dopo l’11 settembre la rappresaglia iniziò con i bombardieri che spianarono per giorni le montagne afgane, poi le bombe intelligenti sulla capitale colpirono subito un grosso deposito con il simbolo vistoso della Croce rossa sul tetto e tra le prime vittime ci furono gli sminatori che per dieci anni avevano disattivato le mine sparse dai sovietici. Per l’occasione il segretario alla difesa, Donald Rumsfeld, pronunciò parole di celebre ipocrisia, quei morti ignoti, umili, erano stati uccisi contemporaneamente dalle vecchie armi di Mosca e dalle nuove usate dagli americani.

Ma in questi giorni un capitolo significativo si conclude, quello della grande corruzione gestita esclusivamente dagli stranieri, senza interferenze locali. Nel 2007 il New York Times aveva scoperto che l’esercito più grande e potente del mondo era stato protagonista di uno scandalo per centinaia di milioni di dollari. I kalashnikov per i soldati del nuovo esercito afgano erano stati comprati da un mercante d’armi appena ventenne al prezzo di 799 dollari l’uno. Normalmente si potevano acquistare nuovi, su licenza, nell’Europa dell’est o in Cina, a un prezzo variabile tra 70 e 100, come gli afgani già sapevano un anno prima. Le munizioni trovate in Cina erano vecchie di decenni, scadute, consegnate dentro casse corrose dalla pioggia. Nessuno al Pentagono si era accorto di questo contratto scandaloso. E altre ruberie sfacciate sono avvenute con i consulenti stranieri. A cascata poi c’è stata una alleanza costante tra americani donatori e notabili locali. Nello scandalo integrato della Kabul bank, la più grande banca privata del paese, che aveva dissipato almeno due miliardi di dollari, i controllori americani erano stati lenti e inutili. Avevo estirpato dopo settimane di attesa alla spettabile agenzia Deloitte la evanescente risposta: «Non abbiamo fornito servizi di revisione o di altro tipo alla Kabul bank».

Di fronte alla mia casa a Kabul in quel periodo c’era una società di logistica, protetta come un fortino sul Khyber pass. Non si vedeva mai una persona. Si chiamava “I quattro cavalieri”. La parola apocalisse restava fuori dall’insegna, come in tante vicende afgane.

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