«Bushà, bushà», vergogna, vergogna, urlano i deputati di opposizione in Israele. «Scendete dai terrazzi, lo stato sta andando in pezzi», gli fanno eco nelle strade i manifestanti.

Lo scontro sulla riforma del sistema giudiziario israeliano è giunto alla sua prima battaglia campale con la presentazione dei primi pacchetti legislativi durante una concitata sessione della commissione Costituzione, legge e giustizia alla Knesset di Gerusalemme.

Fuori dal parlamento in 50mila stanno protestando contro la riforma, mentre altre contestazioni e iniziative vanno in scena nel resto del paese.

Ondata di opposizione

È il culminare di un’escalation di tensione che dura dal 4 gennaio, quando il ministro della Giustizia, Yarin Levin, ha presentato un progetto di modifica del ruolo della Corte suprema che la sottometterebbe di fatto all’autorità del governo e della relativa maggioranza parlamentare.

Le misure, che renderebbero più difficile la tutela dei diritti fondamentali e dei principi liberali in nome di una più completa attuazione della volontà della maggioranza, hanno scatenato sei settimane di imponenti proteste a Tel Aviv e in altre città del paese.

«L’iniziativa è frutto di una congiunzione astrale molto particolare», dice Dov Weissglas, rinomato avvocato israeliano che è stato il braccio destro all’ex primo ministro Ariel Sharon.

«Ci sono al governo tre forze politiche che per motivi diversi hanno interesse ad indebolire il sistema giudiziario. Il primo ministro Benjamin Netanyahu vuole salvarsi dai suoi processi. L’estrema destra vuole accelerare la presa dei territori senza intralci legali. E gli alleati ultraortodossi vogliono uno stato più religioso, l’applicazione cioè di regole che spesso sono in contraddizione coi principi laici e liberali protetti dalla corte».

Sostanza della riforma

I cambiamenti permetterebbero al parlamento di varare nuovamente leggi ritenute illegali dalla Corte suprema, semplicemente facendo valere la maggioranza di 61 parlamentari su 120.

Annullerebbero la cosiddetta “clausola di ragionevolezza”, in virtù della quale la Corte è intervenuta, per esempio, per sopprimere la nomina a ministro del politico pluripregiudicato e alleato di Netanyahu Aryeh Deri.

Politicizzerebbero così l’organo deputato alla nomina dei giudici in Israele. Durante la seduta di lunedì in commissione, dove le forze di governo hanno la maggioranza, i deputati hanno già votato le prime misure, in attesa del passaggio in plenaria.

Israele non ha una costituzione, perché laici, religiosi e le altre anime del paese non sono riusciti a trovare un terreno comune durante i lavori dell’assemblea incaricata nel 1949.

Il risultato è che nei quasi 75 anni trascorsi dalla fondazione dello stato ebraico valori come libertà di parola, movimento, associazione, principi di eguaglianza e diritti umani sono stati garantiti dall’operato delle corti sulla base di 13 leggi fondamentali, che hanno valore para costituzionale.

Se la riforma venisse approvata, il parlamento potrebbe modificarle senza che l’Alta corte possa intervenire.

Ostilità verso a corte

Il freno costituzionale che la corte impone ai governi, da tempo viene vissuto con insofferenza nel campo conservatore, dove c’è chi la considera una casamatta della sinistra.

«I politici devono riflettere il volere della gente, non è possibile che una minoranza continui a buttare a mare le leggi», dice Yishai Fleisher, rappresentante degli insediamenti israeliani presso la cittadina palestinese di Hebron, nonché assistente dell’attuale ministro della Polizia, Itamar Ben-Gvir.

L’estrema destra è particolarmente ostile alla Corte perché, in virtù di una sua stessa deliberazione, i palestinesi residenti nelle cosiddette aree B o C della Cisgiordania hanno diritto a farvi appello laddove avessero contenziosi con lo stato israeliano quanto a confische di terre, coloni, avamposti costruiti su proprietà private.

Questi ricorsi forniscono un’arma di difesa in più per i palestinesi sotto occupazione, spesso rallentando l’espansione degli insediamenti.

Mobilitazione generale

Durante la giornata di lunedì la mobilitazione generale contro la riforma ha interessato centinaia di migliaia di israeliani.

Hanno bloccato strade, fra cui una che conduce all’aeroporto internazionale Ben Gurion, marciato e scioperato. A Tel Aviv centinaia di genitori hanno portato in piazza i bambini. Veterani di guerra, nuovi immigrati e rappresentanti del movimento lgbt si sono uniti alle proteste.

Il movimento rimane fondamentalmente acefalo ma riesce a coinvolgere settori solitamente restii a prendere parte in contenziosi politici, come i lavoratori del settore high-tech, i riservisti dell’esercito ed ex leader dell’establishment della sicurezza.

Da parte sua, Netanyahu ha i numeri necessari per andare avanti, ignorando la levata di scudi generale.

Il leader dell’opposizione Yair Lapid lo ha accusato di trasformare Israele in una «dittatura oscura». L’ex ministro della Difesa Benny Gantz ha detto che non possono esserci discussioni finché il «folle» piano di riforma non sarà  bloccato.

Il sindaco di Tel Aviv, Ron Huldai, ha dichiarato «i paesi in cui c’è la dittatura non tornano alla democrazia senza spargimento di sangue», rimediando una denuncia per incitamento alla violenza da parte del Ministro Ben-Gvir. Contro la riforma si espressa perfino la Casa Bianca.

Nel campo moderato in molti ricordano come lo stesso Netanyahu fosse un convinto difensore dell’Alta corte e dell’indipendenza del sistema giudiziario, accusandolo di aver cambiato posizione soltanto per via dei suoi processi.

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