È passato un anno da quando Evo Morales, presidente della Bolivia per tredici anni, ha lasciato il paese con accuse di brogli che si sono rivelate poi infondate, e con l’”invito” delle forze armate ad andarsene. Aveva distaccato lo sfidante Carlos Mesa con il 47,1 per cento contro il 36,5, ma dopo il suo esilio (prima in Messico, poi in Argentina) il potere è stato gestito ad interim da Jeanine Áñez. Ora la Bolivia è tornata al voto e il Movimento al socialismo (Mas) ha vinto ancora. Il frontrunner non è Morales ma il suo ex ministro delle Finanze, Luis Arce, che dai primi risultati ha incassato più della metà dei voti e ha un vantaggio di venti punti sul conservatore Carlos Mesa. Lo spoglio va lento, ma la vittoria è stata già riconosciuta sia da Mesa che da alcuni degli attori che hanno innescato e poi gestito la caduta di Morales: Luis Almagro, segretario generale dell’Organizzazione degli stati americani che un anno fa insinuò l’ipotesi dei brogli, e Áñez.

L’uscita di Morales

Morales, ex sindacalista dei coltivatori di coca, dagli anni Novanta leader del Mas e dal 2006 primo presidente indigeno del paese, nel 2016 ha indetto un referendum per superare il vincolo dei tre mandati. Lo ha perso, si è appellato alla Corte costituzionale ed è riuscito a ricandidarsi presidente nell’autunno 2019, vincendo con più di dieci punti di margine. Ma l’Organizzazione degli stati americani, istituzione panamericana finanziata al 60 per cento dagli Stati Uniti, lo ha accusato di brogli. La contesa sul voto e i conseguenti scontri si sono conclusi a metà novembre con l’uscita di scena di Morales, spinto da polizia ed esercito a dimettersi. «Vado in esilio per evitare altro sangue», ha detto partendo per il Messico. Il potere è stato assunto dalla senatrice Jeanine Áñez, nota per il disprezzo per gli indigeni («Sogno una Bolivia epurata da questi riti nativi satanici, la città non è per indigeni, tornino sulle montagne»). Tenuta a indire nuove elezioni, ha più volte provato a rinviarle. Una volta convocate per il 18 ottobre, ha ritirato la sua candidatura per compattare il fronte anti Morales.

Il golpe green

Sin dall’inizio Morales e i suoi sostenitori hanno parlato di golpe, ma ci è voluto tempo perché l’inattendibilità delle accuse dell’Organizzazione degli stati americani affiorasse all’opinione pubblica internazionale, fino a far dire a testate come il New York Times che «a guardar bene i dati, le accuse di brogli erano deboli». Studi come quello del Centre for economic and policy research lo avevano evidenziato già a novembre 2019: la divergenza iniziale tra il conteo rapido (i primi risultati) e i dati definitivi era giustificabile. Il New York Times ci è arrivato questa estate: ha sottoposto i dati a un gruppo di ricercatori indipendenti ed è venuto fuori che erano le accuse di brogli a contenere errori statistici. Sempre allo scorso luglio risale un’altra rivelazione: Elon Musk, quarto uomo più ricco al mondo con la sua Tesla che produce auto elettriche, ha risposto a chi gli contestava che «gli Usa hanno fatto un golpe in Bolivia perché tu prendessi il litio» con un tweet al confine tra ironia e arroganza: «Rassegnatevi, faremo saltare i governi di chi ci pare». Il litio, che serve per le batterie green , è risorsa di cui la Bolivia è ricca; ha il più gran giacimento, il Salar de Ujuni. Il Mas ha una tradizione di nazionalizzazioni che non soddisfa gli appetiti delle corporation. Arce ha accompagnato Morales (che lo chiama Lucho) come ministro dell’Economia dal 2006 al 2017.

L’economia di “Lucho”

Nel 2006 l’industria energetica è stata messa sotto controllo dello stato, e un quinto delle terre sono state espropriate e ridistribuite, rivendicando i diritti degli indigeni; nel 2010 lo stato ha preso il controllo della produzione elettrica. Arce ha iniziato la carriera alla Banca centrale della Bolivia, è stato professore universitario e ha fatto parte della corrente dei “Chuquiago Boys”, che (al contrario dei Chicago Boys) rivendicavano un forte ruolo dello stato in economia. Il contendente Mesa è stato invece il vice di Gonzalo Sánchez de Lozada, presidente boliviano che negli anni Novanta, complici pressioni internazionali (tra cui Banca mondiale e Fondo monetario), avviò un processo di capitalizzazione delle imprese pubbliche; a inizio Duemila ci fu la “guerra del gas” (di cui il paese è ricco): le risorse arrivavano all’export (Usa in primis) ma non alla popolazione. Negli scontri ci furono un’ottantina di morti, il che costrinse Lozada alle dimissioni. Gli subentrò Mesa, ma durò due anni: poi è iniziata l’era Morales. E in qualche modo continua.

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