L’ultima prova delle capacità ingegneristiche cinesi è un ponte lungo lo Stretto, di fronte a Taiwan. Lo Anhai Bay Grand Bridge nella baia di Meizhou fa parte dei 277 chilometri di linea ad alta velocità, 20 dei quali sul mare, che collegano le metropoli di Fuzhou, Xiamen e Zhangzhou – nella provincia del Fujian – inaugurati il 28 settembre scorso.

Un pendolino (gaotie) che sfreccia fino a 350 km/h su 84 viadotti e in 29 gallerie, attraversando insenature e montagne della provincia che si affaccia sull’isola rivendicata da Pechino come un suo territorio, distante 160 chilometri. Cong Liang, vice capo della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma (Ndrc), ha esultato: «Nel Fujian è stata creata una rete di trasporti multidimensionale integrata… è ora tecnicamente possibile costruire un passaggio di trasporto ad alta velocità che colleghi la provincia con Taiwan».

Mentre la propaganda di Pechino celebrava l’ennesima mega infrastruttura, a una trentina di chilometri dall’opera appena aperta migliaia di persone si accalcavano come ogni giorno sul molo di Kinmen, alla ricerca di un passaggio sui pochi traghetti che collegano l’isola controllata dalle autorità di Taipei con Xiamen.

Lontani dalle tensioni geopolitiche internazionali, tra i 130mila residenti c’è chi invoca anche qui un ponte che finalmente li unisca ai mercati e ai servizi della Cina continentale. Un’idea fatta sua dal candidato del Partito del popolo (Tpp) alle presidenziali del prossimo 13 gennaio, Ko Wen-jie, che, in visita sull’isola bombardata dall’Esercito popolare di liberazione durante le prime due crisi dello Stretto (1954-55 e 1958), ha proposto di trasformare Kinmen in una “area sperimentale” per la pace tra Pechino e Taipei.

Il ruolo del Fujian

Infrastrutture, sviluppo economico, scambi tra due popoli con le stesse tradizioni divisi dalla vittoria dei comunisti sui nazionalisti nel 1949: è questa la strategia del partito comunista cinese per “riunificare” Taiwan, piuttosto che un blocco navale o un’invasione, soluzioni militarmente complesse alle quali pure si prepara, ma che, da un punto di vista politico, Pechino pagherebbe con l’isolamento internazionale.

Mentre le sue navi e i suoi caccia mantengono alta la pressione sull’Isola, il mese scorso la Cina ha presentato un piano per trasformare il Fujian (dove il presidente Xi Jinping ha ricoperto il ruolo di governatore dal 1999 al 2002) in una «zona dimostrativa di sviluppo integrato tra le due sponde dello Stretto».

Il progetto pubblicato dal comitato centrale del partito comunista e dal consiglio di stato (il governo) prevede la quotazione di compagnie taiwanesi nelle piazze azionarie della Cina continentale, l’istituzione di un fondo comune di sviluppo e altri strumenti di attrazione delle aziende dell’Isola. Inoltre Pechino promette di rendere più semplici gli spostamenti di persone da una parte all’altra dello Stretto.

Oltre al rafforzamento della cooperazione industriale, le 21 misure del piano includono facilitazioni per i taiwanesi che vogliano trasferirsi nel Fujian, per l’accesso ai servizi sociali, l’aumento delle iscrizioni di studenti taiwanesi nelle scuole del Fujian.

I contatti ufficiali tra Pechino e Taipei sono interrotti dal 2016, dal ritorno al potere del Partito progressista democratico (Dpp) della presidente Tsai Ing-wen. Un sondaggio pubblicato il 1° settembre scorso dalla Taiwanese Public Opinion Foundation segnala un aumento dei taiwanesi favorevoli a ottenere formalmente l’indipendenza per quella che ufficialmente si chiama Repubblica di Cina, ma che in quanto tale è riconosciuta soltanto da 13 stati: sarebbero il 48,9 per cento, contro il 26,9 per cento che appoggia il mantenimento dello status quo, e l’11,8 per cento che preferirebbe “riunirsi” alla Cina continentale.

Tra i maggiori partiti politici però soltanto il Dpp è “indipendentista”, mentre sia i nazionalisti del Kuomintang che il Tpp sono per mantenere la situazione sospesa e migliorare le relazioni con Pechino.

Il mercato interno

Xi Jinping ha messo l’obiettivo di quella che il Pcc definisce la “riunificazione” di Taiwan al centro del suo progetto di «grandioso risveglio della nazione cinese». E ha aperto il suo terzo mandato ribadendo l’importanza di questo passaggio.

Nel discorso pronunciato nel marzo scorso davanti all’Assemblea nazionale del popolo il presidente cinese ha affermato che «dobbiamo opporci attivamente alle forze esterne e alle attività secessioniste per l’indipendenza di Taiwan. Dobbiamo promuovere risolutamente la causa del rinnovamento e della riunificazione nazionale».

Le tensioni geopolitiche tra Pechino e Washington e l’aumento dei dazi decretato dall’amministrazione Trump sulle merci importate dalla Cina (che dalla stagione di “riforma e apertura”, all’inizio degli anni Ottanta, rappresenta una fondamentale base manifatturiera per le compagnie taiwanesi) hanno complicato le operazioni del business taiwanese.

Tanto che, secondo il taiwanese Consiglio per le questioni della Cina continentale, gli investitori taiwanesi stanno spostando gradualmente la loro attenzione da un modello incentrato sugli investimenti in Cina per esportare sui mercati internazionali (come, ad esempio, le produzioni in appalto di Foxconn per le multinazionali dell’informatica) verso uno più focalizzato sulla domanda interna dei consumatori cinesi.

Il piano di Pechino interviene in questo nuovo contesto, provando rafforzare nell’era post-Covid l’integrazione dell’economia dell’Isola con quella della Repubblica popolare cinese, che resta di gran lunga il suo principale partner commerciale, avendo accolto nel 2022 il 25,3 per cento delle sue esportazioni (per un valore di 120,7 miliardi di dollari), seguita dagli Stati Uniti, che ne hanno attirato il 15,7 per cento (per 74,9 miliardi di dollari).

Il nuovo quadro politico

I piani di Pechino fanno leva anche sull’evoluzione della politica taiwanese, dopo otto anni dominati dal verde, il colore degli “indipendentisti” del Dpp. Il prossimo voto, che servirà a rinnovare lo Yuan legislativo (il parlamento di 113 seggi) oltre che per scegliere il successore di Tsai (al suo secondo e ultimo mandato), con ogni probabilità darà vita a un quadro più eterogeneo rispetto a quello delle ultime due legislature (2016-2020 e 2020-2024) controllate dal Dpp.

Anche questa volta dovrebbe spuntarla il vice di Tsai, William Lai, che i sondaggi danno al 31,4 per cento. Inseguito però da Ko (Tpp) accreditato del 23,1 per cento delle preferenze, mentre i nazionalisti del Kuomintang, con Hou Yu-ih, dovrebbero raccogliere il 15,7 per cento, e la mina vagante Terry Gou, il fondatore di Foxconn che si è candidato come indipendente e ha scelto come sua vice la popolare cantante e attrice Tammy Lai (che in una serie Netflix, Wave Makers, vince le presidenziali), è inchiodato al 10,5 per cento.

Anche se, geograficamente, il Fujian è l’area della Cina più vicina, finora è soltanto la quinta destinazione preferita dal capitale taiwanese. Da gennaio ad agosto di quest’anno nella provincia sud-orientale sono stati effettuati investimenti per un valore di 176 milioni di dollari, che rappresenta il 7,4 per cento del capitale taiwanese investito nello stesso periodo nella Cina continentale.

Magnati come Gou (Foxconn) e Morris Chang (Tsmc) ma anche tanti capitalisti piccoli e medi, hanno tradizionalmente preferito altre province costiere più sviluppate, come il Jiangsu (42,7 per cento), Shanghai (19,2 per cento), il Guangdong (8,9 per cento), e lo Zhejiang (8,3 per cento), sempre nei primi otto mesi del 2023.

Ma a Pechino sono convinti del potenziale di sviluppo, tanto che stanno costruendo un parco industriale Fuzhou-Matsu (altra isola controllata da Taiwan, a largo del Fujian) per - secondo le autorità - «attirare i connazionali e le imprese di Taiwan a partecipare allo sviluppo dell’economia digitale di Fuzhou, collegando nello stesso tempo impianti idrici, elettrici, gas e ponti tra Fuzhou e Matsu». Alla vigilia di un voto cruciale per il destino di Taiwan, Pechino ha messo da parte il bastone per usare la carota.  

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