Il governo di Pechino non ha condannato l’attacco con il quale i miliziani di Hamas hanno seminato terrore e morte come mai prima all’interno di Israele. Il ministero degli esteri ieri ha fatto sapere che «la Cina si oppone ad azioni che intensificano i conflitti e minano la stabilità regionale». La portavoce Mao Ning ha aggiunto che «ci auguriamo di vedere un rapido cessate il fuoco». Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite non è riuscito a produrre nemmeno una semplice dichiarazione, per l’opposizione questa volta della Russia. Mentre l’ambasciatore cinese, Zhang Jun, che ha commentato che «è anormale che il Consiglio di sicurezza non dica nulla», si era in precedenza limitato ad assicurare il sostegno di Pechino alla condanna di «tutti gli attacchi contro i civili».

Israele non ha gradito. «Riteniamo che la Cina, in quanto superpotenza mondiale, della quale molti paesi attendono la reazione, avrebbe dovuto assumere una posizione più forte - ha replicato Yuval Waks, vice capo della missione israeliana a Pechino -. Quando le persone vengono assassinate, massacrate per le strade, non è il momento di invocare la soluzione dei due stati». Cosa che invece ha fatto Pechino, sostenendo che quest’ultima esplosione di violenza «dimostra chiaramente che la paralisi a lungo termine del processo di pace è insostenibile». Per l’amministrazione di Xi Jinping - continua il comunicato ministeriale - «la via d’uscita fondamentale dal conflitto israelo-palestinese risiede nell’attuazione della soluzione dei due stati e nella creazione di uno stato palestinese indipendente».

«Due popoli, due stati»

Gli analisti cinesi ritengono che il massacro senza precedenti perpetrato dai miliziani islamisti miri a sabotare il tentativo, portato avanti da Washington, di riconciliazione tra Israele e l’Arabia Saudita. Secondo Liu Zhongmin «gli Stati Uniti stanno elaborando piani per risolvere il conflitto israelo-palestinese senza coinvolgere la Palestina, e poi imporre tale piano alla Palestina». Tuttavia, per il docente di studi mediorientali all’Università di studi internazionali di Shanghai «una riconciliazione in Medio Oriente non potrebbe durare, se il conflitto israelo-palestinese restasse irrisolto».

Il 14 giugno scorso, incontrando a Pechino il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mahamud Abbas, Xi aveva lanciato un proposta in tre punti per risolvere la questione palestinese. L’obiettivo finale di Pechino ricalca quello degli Accordi di Oslo siglati nel 1993 da Yasser Arafat e Yizhak Rabin, seppelliti dalla seconda intifada, quella, armata, che (tra il 2000 e il 2005) ha contribuito all’ascesa del movimento islamista Hamas: la creazione di uno stato palestinese indipendente lungo i confini dei territori occupati da Israele nel 1967. La novità sta nel percorso indicato dalla Cina, che ha proposto un massiccio e condiviso piano di aiuti allo sviluppo e di assistenza umanitaria per la Palestina, e, punto tre, un negoziato internazionale ampio, che dunque marginalizzi il broker statunitense, la cui mediazione decennale - secondo Pechino - si è rivelata fallimentare.

La tela cinese

Ma la Cina è obbligata ad andare con i piedi di piombo in un Medio Oriente in cui negli ultimi anni - parallelamente al relativo disimpegno Usa - ha rafforzato le relazioni bilaterali con potenze regionali con strategie divergenti: Israele (con cui il commercio bilaterale è in continuo aumento e che rappresenta un’importante fonte d’importazione di elettronica, chimica e macchinari); l’Arabia Saudita (65 miliardi di dollari di import di greggio nel 2022); l’Egitto, dove le compagnie cinesi hanno investito nelle nuove città e progetti infrastrutturali voluti dal presidente Abdel Fattah al-Sisi; l’Iran, appena entrata nella Shanghai Cooperation Organization, che esporta in Cina circa il 60 per cento del suo petrolio. Arabia Saudita, Egitto e Iran il 24 agosto scorso sono stati ammessi nei Brics, uno dei forum sui quali la Cina scommette per il superamento dell’ordine liberale internazionale.

La nuova via della Seta lanciata da Xi dieci anni fa sta puntando molto sul Medio Oriente, un’area tradizionalmente turbolenta che la leadership di Pechino vorrebbe vedere “stabilizzata”. Un mese fa al G20 di New Delhi il presidente Biden ha svelato una rete infrastrutturale alternativa a quella cinese, che dovrebbe collegare l’India all’Europa, passando per gli Emirati Arabi, l’Arabia Saudita, la Giordania e Israele. Un’idea che l’attacco di Hamas in Israele ha destabilizzato da un punto di vista sia politico sia di sicurezza.

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