La Corte Suprema americana ha cominciato nella giornata di ieri le udienze orali relative al caso Trump v. Anderson, che stabilirà se il nome di Donald Trump potrà essere sulla scheda elettorale delle primarie repubblicane del Colorado, che si terranno il 5 marzo 2024, e se in generale l’ex presidente ha violato la Costituzione e non potrà candidarsi.

Nel dibattito, i giudici hanno dato l’impressione di non volere disarcionare Trump dalla corsa per via costituzionale.

Come siamo arrivati a questo punto? Bisogna ripercorrere le tappe di tutta la vicenda giudiziaria: lo scorso settembre sei elettori delle primarie repubblicane del Colorado hanno presentato un ricorso per escludere Trump dalla consultazione interna del Gop.

La ragione, si leggeva nel loro ricorso, sarebbe contenuta nella terza sezione del quattordicesimo emendamento della Costituzione americana, un oscuro provvedimento approvato nel 1868 per evitare che gli ex aderenti alla ribellione degli stati schiavisti durante la guerra civile americana si facessero rieleggere al Congresso nell’immediato dopoguerra.

Il riferimento è al coinvolgimento dell’allora presidente nell’assalto a Capitol Hill avvenuto il 6 gennaio 2021, dove una folla di suoi sostenitori fece irruzione nelle aule del Congresso con la speranza di interrompere il conteggio dei voti dei grandi elettori, causando cinque morti e diversi feriti tra agenti e manifestanti.

Lo scorso 19 dicembre la Corte suprema dello stato ha deciso a maggioranza di quattro giudici contro tre che invece il presidente doveva essere escluso.

Il verdetto però è stato quasi immediatamente sospeso in attesa di una sentenza della Corte Suprema federale. Anche se in teoria il caso riguarda solo il Colorado, le conseguenze della decisione del massimo tribunale federale statunitense si applicheranno a tutti gli stati.

Gli argomenti

In questi mesi sono stati presentati diverse memorie di parte per stabilire quanto Trump abbia diritto o meno di essere scelto dagli elettori. Secondo i dati disponibili sul sito della Corte suprema, ne sono stati presentati circa un’ottantina.

Tra quelli favorevoli alla tesi trumpiana, alcuni risaltano per la presentazione di argomentazioni aggiuntive. Uno presentato dal senatore Ted Cruz, laureato in legge ad Harvard, afferma che il Colorado ha dato una definizione troppo ampia d’insurrezione.

Un altro, firmato dall’ex procuratore generale di Trump Bill Barr rimarca il fatto che «qualunque possa essere l’opinione sul comportamento dell’ex presidente, la terza sezione del quattordicesimo emendamento non si applica ai candidati alla presidenza».

L’argomento però nodale presentato dal team legale di Trump è quello tratto dallo scritto difensivo presentato dal professor Seth Barrett Tillmann, docente alla Maynooth University in Irlanda: in pratica Trump non sarebbe «un ufficiale» degli Stati Uniti perché il termine si applica solo a chi viene nominato e non eletto.

Non solo: il giuramento del presidente non dice le parole «sostenere la Costituzione», ma soltanto di «preservarla, proteggerla e difenderla». Una questione semantica che, nell’opinione della difesa, potrebbe essere sufficientemente convincente per i giudici, così come il fatto che quella del 6 gennaio non è stata una vera e propria “insurrezione”.

Dall’altra parte della barricata, invece, sono stati presentati altri brief che invece cercano di inchiodare l’ex presidente alle sue precise responsabilità.

Quello che si nota di più è quello dell’ex giudice federale J. Michael Luttig, già consulente legale dell’ex vicepresidente Mike Pence in occasione del rifiuto di conteggiare come validi i grandi elettori scelti dalla campagna di Donald Trump in opposizione a quelli legittimi: l’argomento principale del giurista conservatore è che l’allora presidente «aveva deliberatamente cercato di violare la Costituzione, minacciando l’uso della forza per impedire una pacifica transizione del potere esecutivo» aggiungendo che tutto ciò costituisce «il coinvolgimento in un’insurrezione contro la Costituzione».

L’incitamento

Infine, c’è un altra memoria presentata da un gruppo di ex poliziotti in servizio presso il Campidoglio, che si focalizza sul discorso tenuto dall’allora inquilino della Casa Bianca di fronte ai manifestanti e sostiene che «i contenuti di quella prolusione sono ben oltre i limiti stabiliti dal Primo emendamento» che tutela la libertà di parola.

Senza scandagliare casi antichi come quello del deputato socialista Victor Berger, escluso dalla Camera dei Rappresentanti per la sua opposizione attiva allo sforzo bellico americano durante la Grande Guerra nel 1921 e poi successivamente reintegrato dalla Corte Suprema, ci sono alcuni casi che possono aiutarci a capire come decideranno i nove giudici supremi.

Un tribunale della Georgia ha deciso nel 2022 che la deputata Marjorie Taylor Greene, nonostante abbia usato una retorica incendiaria nei giorni precedenti all’insurrezione sia in pubblico sia sulle sue pagine social, non sia stata direttamente coinvolta in un’insurrezione vera e propria.

Ma sempre nel 2022, a settembre, un tribunale del New Mexico ha rimosso Couy Griffin come commissario (l’equivalente di un assessore) dalla contea di Otero. Griffin, fondatore della milizia dei Cowboy for Trump, però è entrato direttamente nelle aule del Campidoglio.

A differenza di Trump che ha abbandonato la scena pochi minuti prima. Uno scarto temporale che potrebbe fare la differenza a suo favore.
 

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