In un giorno dove non erano previste sentenze, la Corte Suprema ha deciso di esprimersi sul caso Trump v. Anderson, quello che riguarda l’accesso alle primarie repubblicane del Colorado, previste proprio per martedì 5 marzo.

Con un preavviso così scarso, la sentenza arride all’ex presidente Donald Trump, escluso dalla Corte Suprema di Denver che lo scorso 19 dicembre aveva rimosso il tycoon dalla scheda delle consultazioni interne del partito repubblicano perché ritenuto coinvolto nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 e quindi non eleggibile secondo il Quattordicesimo emendamento, lasciando però lo spazio all’organizzazione della campagna elettorale repubblicana di ricorrere alla Corte Suprema, che il 4 gennaio ha accettato di esaminare il caso.

Lo scorso 8 febbraio i giudici del massimo tribunale federale sembravano scettici rispetto all’argomento dibattuto oralmente di fronte a loro sulla possibilità che un singolo stato potesse rimuovere un candidato unilateralmente, opinione che sembrava accomunare sia conservatori che progressisti.

Così si legge anche nella sentenza di oggi, dove si stabilisce che dev’essere il Congresso a decidere quando può essere applicato il Quattordicesimo emendamento e non i singoli stati.

Le tre giudici liberal, Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Ketanji Brown Jackson, hanno però scritto un breve testo concorrente al giudizio principale: secondo la loro opinione la maggioranza dei loro colleghi restringe troppo le maglie e impedirebbe che, in futuro, una Corte federale possa squalificare altre persone colpevoli di atti insurrezionali, come altre persone coinvolte direttamente nei fatti di Capitol Hill che si candidano a livello locale.

Trump esulta

Prevedibile l’esultanza dell’ex presidente, che scrive sui suoi social “Una grande vittoria per l’America!”. Guardando i precedenti, la decisione è in linea con quanto avvenuto negli anni successivi all’approvazione del provvedimento, avvenuta nel 1868, pochi anni dopo la fine della guerra civile che aveva visto contrapposto il governo statunitense alla Confederazione di stati schiavisti del sud.

Dopo qualche anno di purgatorio, infatti, persino il vicepresidente sudista Alexander Stephens era stato rieletto al Congresso come deputato e lo stesso era avvenuto per decine di altri ufficiali militari che avevano letteralmente imbracciato le armi contro il governo.

Anche per un deputato socialista eletto negli anni Dieci le sentenze sono state favorevoli: il rappresentante del Wisconsin Victor Berger, nonostante fosse stato in prima battuta giudicato colpevole di insurrezione per essersi opposto allo sforzo bellico americano durante la Grande Guerra, fu riammesso a sedere tra i banchi del Congresso con una sentenza, la Berger v. United States, emessa nel 1921.

Nonostante dal punto di vista giuridico ci siano pochi dubbi al riguardo, dal punto di vista politico è l’ennesima vittoria per il team legale di Trump, che sta riuscendo a rallentare con successo tutti i processi che potrebbero causargli problemi in vista di novembre: quello riguardante i documenti secretati trasportati illegalmente nella residenza di Mar-a-Lago, così come quello riguardante l’interferenza nei processi elettorali della Georgia e da ultimo il caso che concerne il tentativo fatto a livello federale di ribaltare i risultati elettorali.

Il procuratore speciale Jack Smith, nominato dal dipartimento di giustizia, aveva chiesto alla Corte Suprema tempi celeri per determinare se l’immunità presidenziale si poteva applicare alle azioni di Trump compiute nei mesi di dicembre 2020 e gennaio 2021.

Non è stato accontentato: il dibattito orale sugli argomenti in campo inizierà il 22 aprile e probabilmente il processo, qualora la Corte decida che l’ex inquilino della Casa Bianca possa essere incriminato, si concluderà dopo il voto di novembre.

Resta solo il processo newyorchese sulla frode in bilancio che sarebbe stata usata per pagare la pornostar Stormy Daniels durante la campagna elettorale del 2016 e comprarne il silenzio: il dibattimento comincerà il prossimo 25 marzo e probabilmente si concluderà entro l’estate.

Non ci saranno effetti giuridici concreti, ma secondo i sondaggi quasi la metà degli elettori repubblicani potenziali potrebbe disertare le urne in caso di condanna.

Il Super Tuesday

Nell’immediato però il tycoon si avvia a ottenere la nomination de facto: martedì 5 marzo si vota in quindici stati e Trump è favorito in tutte le consultazioni.

Probabilmente una volta registrati i risultati la sua principale avversaria, l’ex ambasciatrice presso le Nazioni Unite Nikki Haley annuncerà il suo ritiro dalla corsa, sempre che non abbia in programma di continuare soltanto per ottenere uno spazio alla convention repubblicana di luglio a Milwaukee, dove secondo le regole chi arriva secondo ha comunque uno spazio per poter fare un discorso indirizzato ai delegati.

Né lei né gli altri avversari dell’ex presidente che via via si sono ritirati dalle primarie però hanno calcolato che i processi e le controversie legali hanno svolto un ruolo fondamentale nel resuscitare un candidato come l’ex presidente che, soltanto un anno fa, era considerato un ferrovecchio che aveva sostenuto dei candidati estremisti e bizzarri che hanno perso delle elezioni contendibili in stati chiave come Pennsylvania e Georgia.

Anche stavolta è così, anche se col passare del tempo l’aspetto economico è quello che sta più danneggiando il tycoon: le spese legali stanno drenando le finanze della campagna elettorale e non è un caso che abbia scelto una nuova terna di lealisti per guidare il partito repubblicano.

Una di queste persone, Lara Trump, moglie del figlio Eric, ha infatti affermato pubblicamente che sostenere suo suocere nelle sue battaglie processuali «è nell’interesse dell’America».

E quindi anche le casse repubblicane devono contribuire a uno sforzo che, se andrà a buon fine, potrà farlo tornare alla Casa Bianca e salvarlo una volta per tutte da quella che è stata definita dal suo entourage come una “caccia alle streghe”.

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