Quello appena passato è stato il dodicesimo sabato di protesta in Israele. Ancora una volta centinaia di migliaia di persone sono scese in strada per protestare contro quello che viene definito un golpe bianco del sesto governo Netanyahu, che sta discutendo in parlamento una riforma della giustizia che appare un attacco al principio di separazione dei poteri.

Solo a Tel Aviv si sono contate trecentomila persone, a cui le stime ne sommano altrettante nel resto del paese, che, ricordiamolo, conta poco più di nove milioni di abitanti. Nel corso dei mesi, alle ormai consuete manifestazioni di mozzaiè’ shabbat (l’uscita dal riposo del sabato) si sono sommati i flash mob infrasettimanali, con improvvisate sparse in varie città, grandi o piccole che siano.

Poi, gli scioperi, le prese di posizione dell’esercito, con i molti riservisti che hanno annunciato il rifiuto di servire uno stato non democratico.

La rivolta in pigiama

Non si tratta di  teste calde o «anarchistim», come li definisce sprezzante il governo, ma di persone che servono il paese rischiando la vita in guerre e conflitti, a differenza dei religiosi al governo che sono esentati dal servizio militare e sono mantenuti da sussidi per consentire loro di studiare la Torah.

Un crescendo di resistenza democratica che ha pochi precedenti nella storia politica recente. La risposta di Netanyahu, mentre era di ritorno dall’ennesima contestazione ricevuta all’estero, è stata il siluramento immediato del ministro della Difesa Yoav Gallant, che aveva chiesto uno stop dell’iter legislativo della contestata riforma. Una riforma che continua a correre in parlamento come niente fosse e che il governo, fino ad oggi, voleva portare a termine entro Pesach, festività centrale del calendario ebraico che inizia il cinque aprile.

All’annuncio del licenziamento di Gallant, chiesto poche ore prima dai leader dei partiti religiosi al governo, le persone, appena rientrate nelle proprie case, si sono riversate nuovamente nelle strade così come si trovavano. I social pullulano di immagini di persone scese direttamente in pigiama.

Le nuove proteste

È l’inizio di una nuova settimana di protesta, che prosegue con l’interruzione delle lezioni in tutte le università del paese e la chiusura dei cieli in uscita. All’aeroporto Ben-Gurion si può solo entrare e solamente gli aerei già in volo.

Cittadini e funzionari dello stato, fra cui molti sindaci, si stanno radunando di fronte alla Knesset e hanno proclamato uno sciopero della fame di protesta. Molte strade e autostrade del paese sono bloccate da altri manifestanti.

Raduni si susseguono davanti alle case dei ministri e dello stesso Netanyahu. Il console israeliano a New York si è dimesso in disaccordo con le politiche governative.

Le spalle al muro

Nel frattempo, si sono sparse indiscrezioni sull’imminente annuncio da parte del premier di un congelamento della riforma, anche in risposta al disperato appello del presidente Herzog, che ha usato parole di fuoco contro il comportamento del governo. Molto al di là del bon ton istituzionale fra poteri dello Stato.

Come Re Bibi, così lo chiamano i suoi sostenitori, possa conciliare un atto simile con i desiderata dei suoi colleghi di governo appare  un mistero. Ma non si vede, a questo punto, un’altra uscita possibile.

La sua non è una concessione, ma una semplice constatazione di un dato di fatto: con la defezione di Gallant, a cui già si stanno sommando quelle di altri colleghi di governo, il governo rischia concretamente di non avere i numeri per andare avanti.

Se il congelamento si verificasse, i ministri fondamentalisti Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich hanno già annunciato di far mancare il proprio appoggio all’esecutivo. Quando si dice essere con le spalle al muro. Noi possiamo solo osservare e ringraziare questi tanto bistrattati israeliani che difendono anche per noi il confine democratico.

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