Daniel Ziblatt è nel suo studio a Newton, non lontano dal campus di Harvard dove di solito insegna Scienza del governo. Ma ormai si fa tutto via Zoom. Ziblatt è noto per il libro Come muoiono le democrazie, pubblicato assieme a Steven Levitzky nel 2018, dopo la vittoria di Donald Trump, ma a freddo. Il prossimo anno sarà ricercatore affiliato al New Institute di Amburgo, Istituto di studi avanzati sui temi della trasformazione ecologica, economica e democratica della società, che raccoglie insieme attori del mondo accademico, delle arti, dell’attivismo, della politica, dell’economia e dei media. Ziblatt darà il suo contributo al programma di ricerca sul futuro della democrazia.

Quattro anni dopo, qual è la lezione, cosa rimane, come rimettere insieme i cocci? Qual è il suo stato d’animo?

Vagamente schizofrenico. Qui dove abito è tutto molto tranquillo, ma poi accendo la tv e pare che siamo sull’orlo di una guerra civile. Fatico a capacitarmi.

In Come muoiono le democrazie sottolinea quello che oggi chiameremmo “il fascismo americano nell’era di Trump”. Ma c’è, di questi quattro anni, qualcosa di positivo, su cui porre le basi per un cambiamento?

Quando il libro uscì, ci fu chi disse che eravamo stati troppo allarmisti. Col senno di poi, non lo eravamo abbastanza. Ma lei mi chiede barlumi di speranza. Il più evidente è il movimento Black lives matter e la reazione all’omicidio di George Floyd: una mobilitazione di massa.

Si può dire che gli americani siano diventati più liberali, inclusivi, egalitari sulle questioni razziali. Trump credeva di poter mobilitare gli americani bianchi nel suo modo divisivo. Ma gli Stati Uniti sono cambiati, lo dicono anche i sondaggi: una maggioranza di bianchi ora pensa che gli afroamericani siano maltrattati, che il razzismo sia un problema e si debba fare di più per affrontarlo.

Ci sono altri movimenti che hanno svolto un ruolo, ad esempio il Sunrise Movement attivo sul cambiamento climatico. In che modo stanno cambiando dinamica politica e tessuto democratico?

C’è un cambio generazionale. I giovani americani sono assai scettici sul tipo di politica – e di politiche – che Trump rappresenta. Questo ha un potenziale trasformativo. Non sono così ingenuo da credere che se vince Joe Biden arriverà la terra promessa, ma penso ci siano gli elementi quantomeno per una opposizione al tipo di politica a cui stiamo assistendo. Il che è in contrasto con altri luoghi in cui la democrazia è stata sotto attacco: penso a paesi come Ungheria e Turchia, in cui l’opposizione è stata debole.

Nel libro lei sottolinea l’importanza, per la democrazia, delle norme; quella fragile impalcatura che fa sì che i cittadini si mettano d’accordo su cose astratte in modo concreto. Se pensiamo ai più giovani, che hanno a cuore il cambiamento climatico e la sostenibilità, crede che ci sia potenziale per un nuovo sistema normativo?

Su questo ho meno speranze. In tutti i sistemi politici, in ogni interazione sociale, esistono regole non scritte, comportamenti che orientano; ciò che noi descriviamo come norme. La prima è la tolleranza reciproca, l’idea di accettare l’oppositore come rivale, non come nemico. La seconda è l’idea di contegno e di uso del potere sotto tono, visto che alcuni incarichi politici danno davvero tanto potere e allora in quel caso ci si deve auto-contenere: se ciascuno spingesse al massimo l’uso dei propri poteri, si arriverebbe al caos.

Trump sguazza nel caos.

Negli Usa c’è un lungo processo di declino della mutua tolleranza che credo sia cominciato dal lato repubblicano.

Cosa si può fare a riguardo?

Possiamo intendere queste norme come argini delicati: quando si rompono, è tempo di costruirne di più robusti e approvare leggi – magari cambiamenti a livello costituzionale – per riconfigurare l’intero processo.

Lei ha scritto che le norme americane sono nate in un contesto di esclusione. La filosofa politica di Harvard Danielle Allen dice che la sfida del futuro è quella di costruire una democrazia multietnica laddove nessun gruppo etnico particolare è la maggioranza. Che ne pensa?

Questa non è una sfida solo per gli Usa, pure per Germania e società europee. I cambiamenti demografici che prendono piede nelle società avanzate provocano fibrillazioni politiche. Negli Stati Uniti la questione è cruciale perché l’eredità della schiavitù si sente ancora. Poi la differenza tra noi e gli europei è che questi strascichi autoritari si trovano inscritti nelle nostre istituzioni politiche.

In che modo?

David Waldstreicher identifica nella Costituzione alcune clausole a tutela degli interessi dei proprietari di schiavi. Sono ancora nella Costituzione. Tuttora conviviamo con questo stato di cose: un documento creato in parte da proprietari di schiavi per proteggere gli interessi schiavisti.

E ciò dà forma alla politica tuttora.

Il modo in cui è costituito il collegio elettorale, il modo in cui è eletto il presidente: tutto questo deriva in qualche modo da quella eredità. Non è facile distanziarsi dal passato. Ciò che trovo promettente è che sembra che ci sia una crescente maggioranza di americani che assume consapevolezza di questo passato, e si tratta di una sorta di maggioranza democratica multirazziale. Il modo per andare oltre è quindi di consentire alla maggioranza di guidare il paese e di governarlo.

Non è ciò che succede già?

Una delle vere vulnerabilità del nostro sistema è che la Costituzione rappresenta troppo le aree rurali. In più, i repubblicani sono iper rappresentati, in queste aree rurali. Perciò ci ritroviamo con un sistema in cui i repubblicani hanno la possibilità di conquistare la presidenza, il Senato e la Corte suprema, ma senza aver ottenuto la maggioranza dei voti. Abbiamo una regola che consente alla minoranza di governare.

Negli ultimi vent’anni c’è stato soltanto un presidente repubblicano che aveva anche ottenuto la maggioranza dei voti. Fu George Bush nel 2004. Eppure i repubblicani hanno controllato la presidenza per oltre dodici anni su venti. Hanno la maggioranza di seggi al Senato, anche se non hanno ottenuto la maggioranza dei voti per il Senato. Il novanta per cento della base repubblicana è bianca. Una minoranza bianca controlla il sistema senza aver ottenuto la maggioranza. Il partito democratico è multietnico, quindi se si consente alla maggioranza di vincere le elezioni e con ciò di governare, una società formalmente multietnica può fare da volano a una democrazia multietnica.

Significa cambiare aspetti essenziali del sistema elettorale.

Sono un gran sostenitore dell’idea di aggiungere stati al Senato. O abolire il collegio elettorale per disinnescare questa balzana sovrarappresentanza di aree minoritarie. In definitiva espandere il diritto di voto e proteggerlo. Più gente vota, più ha voce la maggioranza, e più inclusiva sarà la democrazia. Qualora venissero introdotte queste riforme, ci sarebbe il presupposto per far diventare gli Usa un modello per il governo di una democrazia multietnica.

Gli Stati Uniti come laboratorio di democrazia. Di fatto, parrebbe che la democrazia nel corso della storia sia nata dalla paura per la maggioranza. Alexander Hamilton lo disse a chiare parole. Lo scienziato politico David Runciman, pensando ad Atene e all’antichità, dice che la democrazia fu costruita sulla paura del giovane, del povero e dell’ineducato. La paura della maggioranza è qualcosa di intrinseco in una certa narrazione della democrazia, e va detto che è potente.

La risposta a questa sfida è sempre stata la selezione fatta all’interno del partito su chi si doveva candidare. Penso che sia tuttora importante per i partiti svolgere questo ruolo di “filtro”. Se andiamo a finire con Joe Biden e Donald Trump, se vengono scelti uomini di 78 anni che si fronteggiano tra loro, vien da chiedersi: ma è davvero questo il modo migliore per selezionare i nostri candidati? Per quanto io pensi che Biden sia un buon candidato, nonché un politico di talento.

Il suo approccio alla faccenda delle maggioranze è cambiato?

Ho meno paura delle maggioranze che in passato. Lei dirà: ma se c’è troppa mobilitazione, non sarà pericoloso? Penso sempre di più che questo timore sia sovrastimato, di fondo nelle maggioranze c’è un certo buon senso, e poi ci sono spazi e ruoli per chi deve fare da filtro: i media, la scienza, e pure la scienza sociale.

Chi giurerà da presidente il 20 gennaio del 2021?

Spero la stessa persona che vincerà le elezioni.

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