Nelle ultime settimane, autorevoli voci in Occidente hanno sottolineato la necessità di riprendere il dialogo con la Cina. Da Henry Kissinger a Joseph Stiglitz o, in Italia e in Europa, Romano Prodi. Hanno storie e formazioni diverse, ma le loro analisi muovono da dati di realtà. Non sono dati piacevoli. Ma non possiamo fare finta di non vederli.

Il primo è la crisi climatica. Come ricorda l’ultimo rapporto dell’International Panel on Climate Change delle Nazioni Unite, la fonte scientifica più autorevole al riguardo, abbiamo ormai pochissimi anni prima che questa diventi irreversibile e vada completamente fuori controllo. Dobbiamo peraltro intervenire con misure ben più consistenti di quelle messe in campo finora e, soprattutto, operare in piena intesa con i Paesi in via di sviluppo. Ed è evidente che per riuscire in tutto ciò bisogna partire dall’accordo con la Cina, la seconda potenza economica mondiale e per certi aspetti, già adesso, capace di mobilitare una quantità di risorse paragonabile a quella degli Stati Uniti. E la capofila dei regimi autoritari alternativi all’Occidente.

Ma l’accordo con la Cina, per andare in porto, deve riguardare l’intero ordine internazionale, e naturalmente portare anche alla fine della guerra in Ucraina.

Regime change e declino dell’Occidente

Per Henry Kissinger, e per Romano Prodi, questo accordo dovrà passare per la rinuncia, reciproca, a operare per il regime change (il cambiamento di regime) nei paesi dell’altro blocco. L’Occidente dovrebbe cioè abbandonare l’ideale dell’universalità dei diritti umani. Ho dedicato i miei ultimi quattro libri a difendere le nostre società aperte, sostenendo che i diritti umani possono e devono essere una aspirazione universale, non limitata al solo Occidente. Occorre tuttavia rendersi conto di quale sia oggi la situazione internazionale (anche per i nostri errori), per giunta con la spada di Damocle della crisi ambientale e il rischio di un conflitto nucleare. Questo è il secondo dato di realtà da cui partono i fautori di un nuovo accordo globale.

Primo, l’Occidente si è molto indebolito rispetto al passato. Ricorda Prodi (sul Messaggero, 27 maggio) che ancora negli anni Novanta i paesi del G7 per i due terzi del Pil mondiale, oggi sono poco sopra il 40%. Non a caso, nella competizione fra regimi sono le potenze autoritarie che guadagnano terreno, da almeno vent’anni, come raccontano annualmente i report di Freedom House. Nella stessa Europa, e negli Stati Uniti, avanza la fascinazione della democrazia illiberale, sotto varie forme, e a volte con l’attiva collaborazione delle potenze autoritarie, specie la Russia di Putin. Il rischio è che il regime change lo facciano loro, da noi.

Quanto alla Russia, si poteva sperare nella caduta di Putin all’inizio della guerra, quando l’offensiva cominciava a impantanarsi e a condizione che le sanzioni fossero state molto più radicali, con il blocco immediato delle importazioni (allora lo chiesi ripetutamente, su questo giornale). L’Europa scelse però una strada più graduale, per avere il tempo di riadattarsi; con il risultato di dare tempo anche alla Russia di riorientare le sue esportazioni. Peraltro nulla ci dice che lì il regime change sarebbe una transizione pacifica alla democrazia: Putin oggi viene criticato, in patria, soprattutto dai falchi; dopo di lui potrebbe arrivare qualcuno ancora peggiore, o il baratro della guerra civile. Senza contare poi che la nostra la richiesta di regime change appare ipocrita, agli occhi del mondo, fintanto che non cominciamo a farla valere per i nostri alleati (su tutti l’Arabia Saudita).

Per una globalizzazione «plurale»

La rinuncia (ripetiamo: reciproca) a operare per il cambiamento di regime vorrebbe dire in sostanza accettare la sfida di una nuova globalizzazione, fondata sul riconoscimento sia dell’interdipendenza, sia del pluralismo politico e giuridico del pianeta. Un libro di Alfredo D’Attorre uscito da poco per Laterza (Metamorfosi della globalizzazione) spiega bene la posta in gioco. Di fronte al fallimento di una globalizzazione fondata sull’idea di una unificazione giuridica e culturale del mondo (era «la fine della storia»), una globalizzazione «plurale» è preferibile, almeno nel breve periodo, all’alternativa che si prospetta: cioè a un nuovo assetto internazionale sempre più segmentato, fondato su una competizione conflittuale fra le grandi potenze. Sarebbe questo davvero un esito esiziale per la storia umana e va sventato a ogni costo, anche al costo di rinunciare a qualcosa.

Possiamo però provare a fare in modo che la nostra rinuncia sia solo temporanea. Dato che il nostro modello, nel lungo periodo, può essere superiore a quello autoritario e quindi vincente (come è successo durante la Guerra Fredda, con i regimi comunisti). Ma affinché questa aspirazione si traduca in realtà, occorre mettere in campo altre condizioni: riguardano gli scambi internazionali, la ricerca scientifica, la finanza. Devono entrare anche loro nella ridefinizione dell’ordine globale.

Commercio, ricerca, finanza

Primo. Bisogna tornare alla liberalizzazione del commercio, smantellando in fretta l’assetto neo-protezionista che si sta delineando (e che peraltro, se diamo retta alle lezioni della storia, facilita il precipitare nella guerra vera e propria). Secondo, la liberalizzazione dovrebbe riguardare anche la proprietà intellettuale, a differenza di quanto fatto in passato: come propone ad esempio  Ugo Pagano, ogni paese dovrebbe destinare una quota minima del suo Pil, ad esempio il 3%, in scienza aperta disponibile a tutti, contribuendo così al rafforzamento di questo bene pubblico globale e distogliendo invece gli investimenti nella ricerca da progetti militari, segreti e protetti, in competizione fra loro (dove invece stanno andando adesso).

Una grande ricerca libera, condivisa, globale, aumenterebbe le nostre possibilità di fronteggiare la crisi ambientale, grazie alle innovazioni, oltre a molte altre sfide a cominciare da quella sanitaria; e favorirebbe la circolazione internazionale di libere idee e libere persone, in un libero dibattito, contribuendo a minare le fondamenta ideologiche dei regimi autoritari.

Non solo. In cambio di un ritorno alla liberalizzazione del commercio, che è oggi nell’interesse soprattutto della Cina, l’Occidente dovrebbe trovare con quella potenza un accordo per ridefinire la globalizzazione finanziaria: in sostanza, si tratterebbe di elaborare su una scala più ampia un modello simile al sistema internazionale di Bretton Woods (1944-1971), in cui i movimenti finanziari speculativi, a breve termine, erano fortemente scoraggiati, a favore di quelli a lungo periodo (che portano anche maggiore sviluppo); e naturalmente occorrere lavorare per eliminare i paradisi fiscali e promuovere la piena condivisione delle informazioni fiscali fra gli stati, e arrivare a un sistema globale incisivo e coerente di tassazione delle multinazionali.

Perché tutto questo è importante? Perché consentirebbe ai paesi occidentali di tornare a fare politiche espansive, senza paura di ritorsioni speculative (la fuga dei capitali) o di successive strette monetarie. In sostanza, permette di attuare politiche sociali e industriali per favorire la conversione ecologica e per tutelare i nostri cittadini (ed elettori).

Un’agenda politica?

In un assetto di questo tipo, le società liberal-democratiche potrebbero così avere le risorse e la forza per mostrare al mondo di essere migliori di quelle autoritarie, mentre il ritorno al libero commercio e alla libera circolazione di idee aiuterebbe a creare le condizioni affinché quei regimi autoritari siano messi in discussione, nel tempo, dai loro stessi cittadini

È solo un libro dei sogni? Dovrebbe essere un’agenda politica. Le forze progressiste in Europa (la sinistra e i socialisti, i verdi, ma anche i liberali) dovrebbero farla propria. E su questo, l’Europa dovrebbe spingere gli Stati Uniti all’intesa con la Cina. È di gran lunga la questione più importante oggi sul tavolo.

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