Il vero biglietto da visita del primo ministro Shinzo Abe, nel paese dove spesso quel rettangolino di carta vale più del volto stesso, era apparso anni fa in tutte le ambasciate giapponesi.  All’ingresso, subito dopo il metal-detector, un manifesto descriveva la flotta da guerra, con la sagoma delle navi a partire dalla ammiraglia, le caratteristiche di ogni scafo, e quanti esemplari esistevano per ogni modello.

Erano passati in secondo piano i classici poster sui ciliegi in fiore attorno al palazzo imperiale, quelli sui templi di Kyoto, sul monte Fuji sempre innevato, sulla cerimonia del the, sui massicci lottatori di sumo, sul treno proiettile.

Tutti simboli rassicuranti, neutrali, di un paese di lunga storia e in apparenza sereno. Che appunto dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale è governato da una Costituzione pacifista che concede solo una forza di autodifesa. Abe promuoveva una flotta vera. 

 Per una di quelle coincidenze inquietanti che la sorte organizza è stato un ex marinaio a uccidere ai primi di luglio il primo ministro più giovane e che ha conservato quel rango più a lungo in Giappone, discendente di una potente dinastia politica.

Attorno a quella morte il potere si è mosso lento e prudente come sempre, anche perché due giorni dopo c’erano le elezioni, limitandosi a indicare «una certa organizzazione».

L’attentatore invece aveva incolpato apertamente la potente setta del reverendo Moon, coreano, per avere risucchiato i beni di sua madre. E poi, secondo una idea trasversale della giustizia,  aveva colpito Abe simpatizzante di quella chiesa oltranzista.

Gli investigatori hanno spiegato come era fatta l’arma dell’attentato,  i giornali hanno ricordato la malattia che affliggeva da giovane l’ex premier. Solo fonti minori si sono avvicinate al perché del delitto, ricordando che in realtà un centinaio di parlamentari liberaldemocratici hanno relazioni con i seguaci di Moon.

Il grande male

Yomiuri

Quel partito governa ininterrottamente il paese dal dopoguerra a oggi, a parte qualche minuscola interruzione.

Alla fine degli anni ottanta nel secolo scorso l’ex primo ministro Nakasone parlava del “grande male” che contagiava il Giappone.

Solo queste due parole, spiegate con espressioni generiche se non criptiche, facendo riferimento a uno scandalo finanziario e alla scarsa vigilanza politica, avevano alimentato un vero tormento mediatico, innescato dalla agenzia ufficiale Kyodo, salendo poi gerarchicamente al telegiornale serale della potente televisione di stato Nhk.

Il “grande male” è incurabile, è la miscela opaca che protegge il potere ad oltranza. Senza guardare indietro e affrontare una indagine vera sul militarismo e la brutalità coloniale precedente la seconda guerra mondiale, come ha saputo fare invece la Germania dopo il nazismo.

La flotta che inorgogliva Abe navigava meglio senza una revisione storica. Ma alla fine nella guerra della memoria è stata una setta coreana a tagliare la rotta.

Il professore Alexis Dudden qualche anno fa scriveva proprio sul “gioco ambiguo” degli americani in estremo oriente dopo le atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Usando Tokyo e Seul una contro l’altra, secondo calcoli di geopolitica, senza riconoscere gli oltre 700mila coreani costretti ai lavori forzati, i civili uccisi barbaramente dalla Manciuria alle Filippine, e lasciando a  Hirohito un potere vuoto. Alimentando così la visione storica dei giapponesi obbedienti alla autorità imperiale divina, e quindi eternamente innocenti. Innocenza respinta tenacemente dai coreani, senza distinzione tra sud e nord.                          

Nell’agosto del 2019 nemmeno la stazza massiccia e le braccia invano muscolose di Mike Pompeo, segretario di stato americano ed ex capo della Cia, erano riuscite  a fare avvicinare fisicamente il ministro degli esteri di Tokyo e la sua collega di  Seul. Sempre per una contesa postcoloniale.  

Come due bambini indispettiti e immusoniti, la signora guardava davanti a sé, nel vuoto, irrigidita mentre il rappresentante giapponese, con una indefinibile smorfia sul viso, assumeva la postura di un uomo in fuga.   

I rapporti con la Corea

Le olimpiadi zoppe del 2021, rinviate per il Covid, senza pubblico, mal sopportate nei sondaggi dai giapponesi, con i grandi sponsor imbarazzati o assenti, accompagnate da applausi registrati, erano riuscite egualmente a riscaldare i malumori e i risentimenti di Seul contro i colonizzatori del passato. Gli atleti sudcoreani avevano messo in valigia uno striscione malandrino, o patriottico, prima di arrivare a Tokyo.

Lo avevano subito esibito dai loro alloggi per ricordare ai padroni di casa che già sei secoli prima un generale coreano con una flotta di solo dodici navi aveva avuto la meglio contro la imponente flotta giapponese con centotrentatre navi. E che ancora oggi oltre cinquanta milioni di compatrioti coltivano questo orgoglio.

I nazionalisti nipponici nostalgici delle glorie imperiali avevano risposto sventolando la bandiera con il sole rosso al centro e i sedici raggi, simbolo del Giappone aggressivo. A quel punto i coreani avevano reagito con un nuovo striscione esibendo la tigre, simbolo della fierezza e della loro forza nazionale. Le gare erano iniziate dopo questa rissosa introduzione. 

Quella volta il pretesto è stato lo sport. Che ai coreani richiama sempre le olimpiadi del 1936, con il nome di Kitei Son carico di simbolismo e di orgoglio.

Nome giapponese imposto al cittadino coreano Sohn Kee Chung, nato in quella che oggi è la Corea del  nord. Vinse la maratona davanti all’eroico inglese Harper arrivato con le scarpe e i piedi rossi di sangue e al suo compatriota Nam Sung Yong, anche lui colonizzato dai giapponesi.

La sua figura alta e asciutta, ripresa nelle foto dell’epoca, aveva già vinto nove maratone prima di arrivare a Berlino. E altre maratone vincerà in seguito.

Alla premiazione, con il sole rosso in campo bianco ben visibile sulla maglia, il vincitore restò a testa bassa per tutto il tempo della cerimonia mentre risuonava l’inno del Sol levante e veniva issata la bandiera dell’imperatore.

Un giornale a Seul pubblicò la foto del vincitore e del suo collega arrivato terzo cancellando malamente il sole sulla maglia. Il governatore straniero non voleva credere a quell’atto di sfacciata ostilità. Otto persone furono imprigionate, e la testata chiusa per nove mesi.

Mentre i giornali stranieri che non appartenevano al nefasto asse Roma-Berlino-Tokyo si premuravano  di abbellire ulteriormente la vittoria.

lI problema dell’isola

This Saturday, Dec. 28, 2019, photo provided by Sado Coast Guard Station shows a part of a boat on Sado Island, Niigata Prefecture, northern Japan. The boat suspected of being from North Korea with several bodies was found on the small island, the Japanese Coast Guard said Sunday, Dec. 29, 2019. (Sado Coast Guard Station via AP)

Quello che non è stimolato dallo sport lo ha scatenato in questi mesi l’isola di Sado, con le sue antiche miniere di oro e argento oggi abbandonate.

Qui i giapponesi avevano impiegato a forza 1500 coreani. Adesso Tokyo ha chiesto all’Unesco di iscrivere quell’isola nel patrimonio culturale dell’umanità.

Subito da Seul hanno reagito perché quelle miniere sono state un luogo di pena, di lavori forzati, che devono essere ricordati con rispetto e non con poche misere righe, in mezzo ai manichini dei minatori, come tappe neutre di un itinerario turistico. Ma qui purtroppo ritorna la risposta arida e sbrigativa delle autorità giapponesi: quei coreani erano cittadini dell’impero ed erano reclutati correttamente, secondo le leggi di occupazione.

Queste vietavano di parlare la propria lingua, imponevano di cambiare il proprio nome nella lingua dell’occupante, di misurare il tempo su l’ora di Tokyo. E proprio a proposito di Sado uno stretto collaboratore di Abe aveva commentato cinicamente che “la verità cambia” perché dipende da chi la guarda.

   L’isola è stata anche un luogo strategico per i nordcoreani, che lì hanno rapito cittadini giapponesi per poi utilizzarli come istruttori per le loro spie, in un capitolo rocambolesco ancora aperto. Recentemente il Giappone ha risollevato questa vicenda con una pagina intera a pagamento sul New York Times, ma senza spiegare la ragione di questo richiamo.  

Un’isola minuscola, Hashima, che per la sua forma viene chiamata “isola della nave da guerra”, ha una storia ancora più cupa. Estesa come quattro campi da calcio, rocciosa, senza vegetazione, ospitava contemporaneamente in una serie di edifici oggi abbandonati e cadenti cinquemila persone, tra quelle in superficie e quelle contemporaneamente impiegate nei tunnel a scavare carbone. Ne arrivarono sessantamila in diverse ondate.

 La concentrazione di esseri umani, coreani e cinesi, più alta del pianeta, nelle statistiche della compagnia Mitsubishi, pilastro della colonizzazione industriale nipponica.

In media otto letti, una stanza, una finestra. C’era anche un tempio scintoista. Sotto una piramide di schiavi rovesciata, sotterranea. La guerra della memoria può continuare.

               

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