Come magistralmente raccontato in “Snowpiercer” in versione film e serie, impiegare tecnologie potenzialmente devastanti che ci consentano di raffreddare il pianeta significherebbe mettere la Terra “in vitro”, con tutti gli enormi rischi connessi a questa prospettiva.

Eppure, di fronte agli sconvolgimenti climatici globali, è comprensibile che cresca la tentazione di cercare una scorciatoia, un “piano B” che funga da polizza assicurativa sul nostro stile di vita e sulla modernità capitalista globale, minacciati dall’instabilità del “nuovo regime climatico”.

Sin dai primi anni Duemila, il premio Nobel Paul Crutzen promuove la ricerca sulla cosiddetta “ingegneria climatica” (o “geoingegneria”), una nozione che incorpora qualunque intervento tecnologico su larga scala pensato per rallentare il surriscaldamento globale. La scienza dietro la geoingegneria non è, però, neutra e oggettiva. È anzi caratterizzata da profonde asimmetrie di potere, come quelle tra nord e sud globali.

Un intervento di proporzioni necessariamente planetarie, come quello invocato da Crutzen, non può prescindere dall’assunto secondo cui tutta l’umanità condivida gli stessi interessi, in questo caso la preservazione dello status quo. Questa premessa implica un alto grado di egemonia scientifica: “pochi” parlano per “tutti”.

Riflettere o catturare

Le tecnologie dell’ingegneria climatica si classificano in due macrocategorie. Da un lato, i sistemi di solar radiation management (Srm) mirano ad aumentare la riflessione atmosferica della luce solare, riducendo così il calore assorbito dal pianeta grazie alla modifica delle proprietà delle nuvole più alte. In sostanza, le “scie chimiche” amate dai complottisti non esistono, ma potrebbero diventare realtà.

Al contrario, altre tecnologie mirano alla rimozione diretta delle particelle di anidride carbonica, il principale gas serra, dall’atmosfera (carbon dioxide removal – Cdr): elaborare sistemi per “catturare” la CO2 emessa consentirebbe, secondo i sostenitori della geoingegneria, di mantenere inalterata la modernità capitalista basata su un’enorme e insostenibile quantità di emissioni umane, senza bisogno di politiche “green” o conseguenze drastiche sul nostro stile di vita. Eni, per esempio, è impegnata nella ricerca sulla cattura e lo stoccaggio della CO2 e ritiene il Cdr «l’unica strada immediatamente percorribile» per ridurre le emissioni dei settori più inquinanti.

Proprio l’idea di avere una scappatoia come quella dell’ingegneria climatica potrebbe concretamente ridurre i nostri sforzi orientati alla riduzione delle emissioni dannose, principio che rende la ricerca su Srm e Cdr un enorme “azzardo morale”.

Egemonia scientifica

A parlare di ingegneria climatica identificando minacce e soluzioni ai problemi è quasi esclusivamente quella che il giornalista scientifico Eli Kintisch definisce “Geoclique”. Si tratta dello zoccolo duro della comunità degli scienziati impegnati nello studio del sistema Terra, costituita prevalentemente da uomini bianchi di mezza età del nord globale.

L’egemonia scientifica della “Geoclique” si basa sulla distribuzione ineguale dei mezzi della moderna scienza, tecnologie raffinate e costose che attribuiscono autorevolezza alle affermazioni e alle sperimentazioni di chi le possiede.

Tra queste, la flotta satellitare per l’osservazione terrestre e le tecnologie di modellistica predittiva hanno un ruolo pressoché sociale nella costruzione della scienza climatica. Si tratta, però, di una conoscenza estremamente situata, in quanto la distribuzione di satelliti e software predittivi riflette quella del “potere” globale, con le già citate asimmetrie tra nord e sud.

Il dominio quantitativo e qualitativo degli Stati Uniti nell’osservazione terrestre ha portato all’abbassamento del grado di inclusione degli scienziati del sud globale nei dibattiti su problemi climatici e relative soluzioni. Pochi, insomma, parlano per tutti.

E dei “tutti” quei “pochi” assumono interessi e aspettative, rendendo egemonici i propri valori occidentali, in realtà tutt’altro che universali. I satelliti hanno, infatti, mediato la definizione di “Antropocene”, la nuova era geologica innescata dall’impatto ambientale umano la cui cifra caratterizzante è proprio l’instabilità climatica: fornendo dati a chi li possiede (i “pochi”), i satelliti hanno consentito, dunque, di identificare la minaccia da contrastare.

Allo stesso modo, i computer e i software utilizzati per predire l’evoluzione del clima terrestre e gli effetti di eventuali interventi di ingegneria climatica non sono, per usare un eufemismo, beni pubblici globali.

Le cause del limitato accesso ai modelli climatici e alle loro predizioni non sono solo di natura economica, ma anche legate all’inevitabile complessità della tecnologia predittiva. Il rischio è una tecnocrazia “occidentale” in cui l’élite scientifica si renda sempre più indispensabile nell’impiego di tecnologie volte a “raffreddare” il pianeta.

Soluzioni alternative all’ingegneria climatica rischiano di essere scartate a priori, sacrificate sull’altare dello scientismo e dell’agio garantito qui a nord dalla modernità capitalista.

Non solo. L’uso dei modelli predittivi consente la differenziazione retorica tra ricerca e implementazione delle tecnologie “geoingegneristiche”, consentendo agli scienziati promotori dell’idea di legittimare il proprio lavoro: come può il risultato di una simulazione computerizzata rappresentare un azzardo morale?

Verso la geoingegneria

Verso la fine degli anni Novanta, gli scienziati del Lawrence Livermore National Laboratory (Llnl), guidati dal “dottor Stranamore” Edward Teller, il padre della bomba all’idrogeno oltre che collega dell’oggi popolarissimo Oppenheimer, hanno, tra i primi, prodotto pubblicazioni in cui si invocava un intervento tecnologico per limitare il surriscaldamento globale. Il laboratorio è da allora impegnato nella ricerca sull’ingegneria climatica con l’intento dichiarato di «consentire l’uso continuato del carbone statunitense per la produzione di energia».

Negli anni del confronto bipolare con l’Unione sovietica, gli Stati Uniti hanno beneficiato a lungo degli studi del Llnl, fondato come centro d’eccellenza nel 1952 per studiare, tra gli altri dossier, anche gli effetti dei test nucleari e di un’eventuale guerra atomica, in particolare prevedendo le traiettorie delle nubi radioattive generate dalle esplosioni. Dopo la fine della guerra fredda, le tecnologie di modellistica usate per questo scopo sono state in parte convertite all’analisi climatica predittiva.

Il fascino del Llnl sembra irresistibile: centro eroico della lotta nucleare al comunismo, laboratorio ipertecnologico e, più di tutto, parte integrante del network governativo statunitense. Identikit dei “pochi” che parlano per “tutti”, senza che questi ultimi abbiano voce in capitolo, tagliati fuori da una scienza d’élite che mira a salvare, con metodi d’avanguardia, le amenità del capitalismo prima che il pianeta e i suoi abitanti.

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