C’è stato un tempo nel quale il voto afroamericano era legato a doppio filo al Partito repubblicano. Per tantissimi motivi. Non solo perché Abraham Lincoln era colui che aveva posto la parola fine all’istituzione della schiavitù sul territorio statunitense, mentre i democratici nel 1868 avevano come slogan elettorale “Siamo un paese di bianchi, facciamo governare i bianchi”. Anche per la retorica del Partito repubblicano: liberi uomini, terra libera e lavoro libero.

A cavallo tra Ottocento e Novecento il fondatore del Tuskegee College, Booker T. Washington, arrivò ad accettare la segregazione razziale, rilanciando con l’affermazione che gli afroamericani si sarebbero fatti strada da soli con il lavoro e prendendosi la propria fetta di sogno americano.

Non è andata così, e il massacro di Tulsa nel 1921 lo testimonia: non era accettabile agli occhi di alcuni bianchi che i neri potessero diventare milionari e possedere aerei. Questa linea di pensiero, però, è arrivata fino a oggi.

A capirlo di recente è stato l’ex presidente Donald Trump, che spesso in campagna elettorale aveva affermato di aver fatto più per gli afroamericani di qualsiasi altro presidente, eccetto Lincoln.

Pur non volendo sminuire quanto fatto con il First Step Act del 2018, che aiuta gli ex detenuti federali a non essere recidivi e a reinserirsi in società, programma che è mirato ad aiutare moltissimi afroamericani, la sua promessa è stata  economica: potreste crescere come l’economia americana, non fatevi intrappolare nell’assistenzialismo perenne che vi propongono i democratici.

Sorprendentemente ha funzionato, almeno tra gli uomini. Solo l’80 per cento dei maschi neri ha votato per Joe Biden, una forte diminuzione rispetto al 95 per cento che votò per Barack Obama nel 2012. 

Anche il sostegno tra le donne in parte è andato calando: il 91 per cento rispetto al 94 per cento che appoggiò la candidatura di Hillary Clinton nel 2016. Un dato che nel Midwest ha raggiunto un terzo dei votanti di questo segmento.

Spostamento lento

Un successo non determinante ma che sta determinando uno spostamento lentissimo che ci dice che gli afroamericani non sono più quel blocco di voti monolitico per i dem come sono stati a partire dagli anni Settanta, quando Richard Nixon abbracciò quegli elettori sudisti scontenti della svolta egualitaria del partito democratico di Washington.

Ci sono anche ragioni ideologiche, non soltanto storiche. Uno degli eminenti ideologi di questa corrente conservatrice è Thomas Sowell, economista nato nel 1930, allievo di Milton Friedman durante il dottorato all’università di Chicago, proveniente da una famiglia povera del North Carolina segregato e laureato ad Harvard grazie ad una borsa di studio per veterani della guerra di Corea.

Per lui, la nozione di razzismo sistemico è infondata: i problemi degli afroamericani negli Stati Uniti sarebbero molto simili a quelli del sottoproletariato urbano bianco, come ha argomentato nel suo Black Rednecks and White Liberals del 2005.

Non solo: questa nozione fallace verrebbe propaganda dai liberal a un ritmo goebbelsiano. In Affirmative Action Around the World del 2004, Sowell rincara la dose: il governo non è la soluzione ai problemi delle minoranze, anzi l’opposto. Mette in difficoltà gli studenti ammessi col sistema delle quote.

Sowell, che negli ultimi ha votato per Donald Trump nel 2016 e ha paragonato la vittoria di Joe Biden nel 2020 alla caduta dell’Impero romano d’occidente, ha lasciato una vasta filiazione ideologica.

Clarence Thomas e gli altri

In primis, con il giudice forse più conservatore della Corte suprema, quel Clarence Thomas che raramente fa domande durante le audizioni, ma scrive dissensi forti su ogni sentenza che profuma di progressismo.

Anzi, diciamolo bene: che si allontanano dalla visione originalista della Costituzione, ovvero che tendono ad attualizzare implicitamente le norme rispetto a quando sono state scritte.

Non si pensi però che la razza non abbia giocato un ruolo nella formazione di questo peculiare filone del pensiero conservatore. Anzi, nel caso di Thomas, oltre al volume di Sowell Race and Economics del 1975, hanno influenzato il suo modo di pensare anche libri come Native Son di Richard Wright e Invisible Man di Ralph Ellison, scritti da autori vicini a un nazionalismo black che avrebbe trovato molta fortuna negli anni Sessanta.

Un saggio di Corey Robin del 2019, The Enigma of Clarence Thomas, ha indagato questo legame, ma la risposta a questo dilemma dovrebbe essere ancora più semplice e diretta. Perché in un regime di piena uguaglianza, dove il razzismo sistemico è un concetto esagerato dalla sinistra, un nero non dovrebbe essere conservatore?

Del resto, anche l’elettorato dem afroamericano è più conservatore di quello bianco. Un esempio: gli sforzi di Pete Buttigieg durante le primarie del 2020. Nonostante Kamala Harris lo negasse, molti elettori anziani erano ostili all’idea di un presidente gay e lo testimonia un memo utilizzato dal viceleader di maggioranza alla Camera dei Rappresentanti, Jim Clyburn, afroamericano che ben conosce le comunità religiose del South Carolina, dove le idee sociali sono non dissimili da quelle dell’elettorato bianco in uno degli stati più conservatori del sud.

E proprio nello stato che iniziò la guerra civile americana risiede l’unico senatore repubblicano nero, Tim Scott. Che nella risposta al messaggio al Congresso di Joe Biden della scorsa primavera ha detto, tra le altre cose, che spesso la sua posizione è criticato usando termini razzialmente connotati come “zio Tom”.

Lo stesso è accaduto anche a Thomas, definito durante la notte elettorale del 2020 “Zio Clarence”. Anche il principale sfidante di Gavin Newsom durante l’ultimo recall in California, Larry Elder, ha subito un lancio di uova da parte di una manifestante bianca mascherata da gorilla, dettaglio notato en passant soltanto dal Los Angeles Times.

Come se le posizioni di Elder, un mix di libertarismo e di idee radicali di destra da imbonitore non fossero più che sufficienti per criticarlo da sinistra. Si può dire però che questo attacco lo abbia pienamente legittimato.

In California, un partito repubblicano in stato comatoso da anni, cercava un leader visibile e carismatico per tornare ad essere mediaticamente rilevante. E chi meglio di un conduttore radiofonico noto per il suo uso massiccio di epiteti e provocazioni di bassa lega? Che poi questo serva a vincere nello stato più democratico d’America, è un altro discorso.

Ma gli afroamericani conservatori, che alcuni commentatori frettolosi hanno definitivo “traditori della propria razza” sono una forza che aumenterà nei prossimi anni e che può mandare all’aria i calcoli dei democratici su una maggioranza inattaccabile a causa del calo demografico dei bianchi.

© Riproduzione riservata