Ogni anno, si sa, è scandito da una serie di anniversari. Nel mentre si pensa già ai nuovi, crediamo opportuna una riflessione su quelli passati. L’anno appena conclusosi è stato, per antonomasia, l’anno calviniano, vista la nascita di uno dei più originali scrittori del Novecento nel 1923 nella cubana Santiago de Las Vegas.

Personalmente, mi sento vicino a Italo Calvino, che ha fatto parte della mia formazione, anche per le facili intersezioni della sua opera con le grandi tematiche della filosofia moderna e contemporanea. Un po’ come per i casi di Gadda e Svevo con la psicoanalisi. Mi ricordo un bellissimo corso di Rossella Fabbrichesi Leo, che fu poi la mia correlatrice di tesi, dove Le città invisibili venivano accostate al prospettivismo leibniziano.

Così come memorabile resta per me la trasmissione di Rai Radio 3 del compianto Giulio Giorello che prendeva il nome da Gurdulù, il personaggio del Cavaliere inesistente che, quando cade in uno stagno, non sa mai se sia l’acqua a essere andata sopra di lui oppure lui a essere caduto dentro l’acqua. Proprio per la stima che ho per questo straordinario narratore, con stupore ho letto, su opportuna indicazione del mio amico veronese Prof. Mauro Montresor, quanto Calvino scriveva in una lettera da New York datata «Vigilia di Natale 1959».

Missiva opportunamente non emendata dal curatore del volume Luca Baranelli (Italo Calvino, Lettere 1940-1985, Mondadori). Dopo aver evidenziato pregi e difetti di quella che, a occhi europei, è sempre apparsa una superficialità tipicamente americana, lo scrittore comincia a lamentarsi del peso gradualmente assunto da questo «spaventoso monoteismo protestante-ebraico-cattolico», insopportabile per chi, come lui, crede «che la verità esista solo nella molteplicità degli dèi», così come ogni città assume un aspetto diverso a seconda del punto da cui la si osserva.

Ma, andando, potremmo dire, all’origine del problema, lo scrittore continua: «Amavo l’America e ancora la amo, ma come diversa invece mi appare con questo monoteismo che fa del cattolicesimo qui un pericolo terribile e gli ebrei questi cani che non hanno mai costruito niente, pensare che l’America pensa oggi con cervello ebreo, novantacinque per cento ebreo, e gli ebrei cosa hanno risolto? Niente, la psicanalisi, altro sistema per evitare le antitesi».

Non può sfuggire il destinatario della lettera: quel Franco Fortini colpito dalla leggi razziali del 1939 perché figlio dell’avvocato livornese Dino Lattes. Calvino non sembra nemmeno farci caso, tanto innocenti gli dovevano apparire le sue parole. Ricordiamo questa lettera per mettere all’indice l’opera calviniana con una sorta di cancel culture in salsa ebraica, magari chiedendo che venga rimossa dai programmi scolastici come qualche sprovveduto ha chiesto, ad esempio, per la figura di Heidegger al momento della pubblicazione dei Quaderni neri, che eliminavano ogni dubbio riguardo la sua matrice antisemita?

Certamente no, Calvino resta un gigante della letteratura del Novecento, la sua opera è imprescindibile. Piuttosto, vogliamo sottolineare la pervasività dei pregiudizi antigiudaici, da cui non è stata esente, e non lo è, nemmeno l’alta cultura, che ricicla in modo acritico stereotipi ereditati dall’intera tradizione occidentale, nella sua versione greco-ellenistica e cristiana.

Il rimprovero è sempre quello: gli ebrei, questi fanatici, esclusivisti, oppressori della differenza, insensibili all’alterità, indifferenti a chi è diverso da loro. Toni ben presenti anche nel modo in cui viene raccontato il tragico conflitto attuale.

Se il nuovo anno è tempo di nuovi anniversari, lo è anche di propositi. La speranza è che il ritorno in grande stile dell’antisemitismo osservato dal 7 ottobre in avanti spinga (almeno le classi colte) a una riflessione sui termini che utilizzano quando parlano di Israele e dell’ebraismo tutto, evitando parole che, esattamente come queste calviniane, riflettono pregiudizi secolari. Così come ci si augura una riflessione sul modo in cui si raccontano gli eventi perché, appunto, ogni cosa appare diversa a seconda dell’angolatura. Anche un modo per mostrare il nostro debito nei confronti dell’autore meritoriamente celebrato nell’anno appena conclusosi.

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