Il cardinale Matteo Zuppi è partito martedì alla volta di Pechino per proseguire la sua missione di pace come inviato speciale del papa: dalla sua ha il sostegno del ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ma non quello del governo di Kiev, che nei giorni scorsi ha respinto a priori ogni proposta di mediazione della Santa sede, accusando senza giri di parole il papa di essere filorusso.

Le vie della diplomazia papale sono infinite, tuttavia le condizioni di partenza per il tentativo in corso sono estremamente fragili. In ogni caso è previsto che il cardinale incontri nella capitale cinese il primo ministro Li Qiang.

In questo quadro, non aiuta l’altalenante descrizione del suo mandato, se sia cioè diplomatico o prettamente umanitario. Da ultimo, il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, aveva posto l’accento su quest’ultimo aspetto, intervenendo di fronte al sinodo dei vescovi greco-cattolici ucraini che si chiude oggi a Roma

La segreteria di Stato, aveva detto infatti Parolin, «a fianco del Santo Padre, si è interessata dello scambio dei prigionieri, del rimpatrio dei bambini ucraini dalla Russia (questione sulla quale si è focalizzata la missione del cardinale Zuppi, inviato speciale del Papa, nelle sue visite a Kyiv e Mosca), dell’accordo sull’esportazione del grano, degli aspetti umanitari del piano di pace proposto dalle Autorità ucraine».

Della questione dei bambini ucraini Zuppi aveva parlato anche a Washington con il presidente Joe Biden, secondo quanto aveva fatto sapere la Casa Bianca. La Santa sede, infine, dando notizia della missione del porporato italiano, ha cercato di tenere insieme i due aspetti; la visita a Pechino, recitava una nota ufficiale, «costituisce un’ulteriore tappa della missione voluta dal Papa per sostenere iniziative umanitarie e la ricerca di percorsi che possano condurre ad una pace giusta».

Una pace ucraina

D’altro canto, le parole di Parolin indicavano anche un altro aspetto tutt’altro che secondario della questione, ovvero l’attenzione posta dal Vaticano agli «aspetti umanitari del piano di pace proposto dalle autorità ucraine».

In sostanza, il capo della diplomazia vaticana lasciva intendere che, qualsiasi proposta di mediazione, anche in campo umanitario, non poteva che prendere le mosse da quanto chiedeva la parte aggredita, cioè l’Ucraina.

Un’eco di questa impostazione si è sentita anche nelle parole di Zuppi pronunciate lunedì nel corso del tradizionale summit per la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, che quest’anno si svolge a Berlino. «Dev'essere una pace scelta dagli ucraini – ha detto il cardinale – con le garanzie, l'impegno, lo sforzo di tutti. E quindi chiaramente quello della Cina è uno degli elementi forse più importanti».

Va detto che lo stesso Zuppi, intervenendo anche lui davanti al sinodo greco-cattolico nei giorni scorsi, aveva anche affermato: «La vittoria è la pace, e mai l'umiliazione del nemico che porta invece a futura inimicizia e ostilità». Parole forse non del tutto in linea con un contesto nel quale il capo della chiesa greco cattolica, l’arcivescovo di Kiev Sviatoslav Shevchuk, ha detto: «Con la forza dell’amore per la nostra patria, per il nostro popolo, vinceremo!».

Infine ieri, il papa, indirizzando un messaggio ai partecipanti all’incontro di Sant’Egidio, denunciando la «pazzia della guerra», affermava fra l’altro: «l’Europa, che conosce la guerra in Ucraina, un conflitto terribile che non vede fine e che ha provocato morti, feriti, dolori, esodi, distruzioni».

Un papa non più amato

Quel che è certo è che il consenso del papa in Ucraina è crollato. Lo ha spiegato all’Ansa il vescovo cattolico-latino di Kiev-Zhytomyr, Vitaliy Krivitskiy, 51 anni, salesiano, che si trovava anche lui a Berlino. «Se parliamo del popolo ucraino in generale, certamente il loro punto di vista verso il Papa è cambiato. Prima della guerra, secondo le statistiche, il 64 per cento del popolo ucraino appoggiava il papa, più che in altri paesi. Oggi il livello delle persone che appoggiano il papa è poco più del 6 per cento».

Il vescovo ha lamentato la scasa chiarezza da parte di Francesco nel parlare della guerra. Certo, va considerato che il pontefice in quanto pastore della chiesa universale, deve tener conto anche delle sensibilità di quelle chiese, di quei leader, delle opinioni pubbliche che sono diffidenti verso l’occidente, la Nato, l’Europa e gli Usa.

Si guardi all’ultimo G20, dove fra i grandi paesi cosiddetti emergenti, la poca confidenza accordata all’occidente si è tradotta in uno bizzarro equilibrismo circa le responsabilità del conflitto in corso.

Una parziale spiegazione di questa impostazione l’ha data il grande imam di Al Azhar, autorevole centro di studi islamici del Cairo, Ahmad al Tayyeb in apertura del summit delle religioni per la pace promosso da Sant’Egidio.

«Vorrei ribadire il principio – ha detto al Tayyeb – secondo cui non c’è pace se non è per tutti: e cioè, non c'è pace in Europa senza la pace del medio oriente, in particolare in Palestina, nessuna pace in Asia senza la pace dell'Africa, nessuna pace in Nord America senza la pace del Sud America».  

E tuttavia, ciò che richiedono i vescovi ucraini al papa è forse anche più semplice e lo si può riscontrare in quanto affermato sempre a Berlino da Annette Kurschus, presidente del Consiglio della chiesa evangelica in Germania.

«La chiesa evangelica – ha detto Annette Kurschus –  condanna la guerra di aggressione della Russia. Sono convinta che ci sia bisogno di due cose al contempo: una forte Ucraina, che possa difendere sé stessa e la propria libertà, e l’impegno per il dialogo, per far tacere le armi e porre fine alla carneficina di migliaia di morti». Due concetti che fanno fatica a trovarsi l’uno accanto all’altro nelle parole del papa e di vari esponenti vaticani.  

 
 

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