È stato detto e ribadito più volte che l’aggressione russa all’Ucraina ha rafforzato la Nato. Tutto vero. Ha ricordato ai paesi membri che la sicurezza dell’area euro-atlantica non può essere data per scontata e che l’Alleanza è lo strumento più efficace per mantenerla.

Ha fatto capire anche ai governi più recalcitranti che l’obiettivo di investire il 2 per cento del Pil in spesa e ricerca militare non è un capriccio americano ma un passaggio obbligato per chi non vuole diventare preda degli appetiti delle potenze revisioniste, come dimostrano la Zeitenwende (“svolta storica”) della Germania in materia di difesa e il recente Atto di Indirizzo pubblicato dal dicastero diretto da Guido Crosetto.

Ha rilanciato il processo di allargamento, con l’ingresso della Finlandia e quello ormai imminente della Svezia. Allo stesso tempo, tuttavia, la guerra ci ha fatto dimenticare le numerose frizioni che logoravano l’Alleanza da quasi un decennio, tanto da farla definire «obsoleta» (copyright Trump) o «cerebralmente morta» (copyright Macron). E che stanno riemergendo nei giorni del summit 2023. Se tutti gli alleati sono d’accordo sul fatto che l’Ucraina vada sostenuta nell’immediato, già sulle prospettive di medio termine emergono posizioni eterogenee.

Sono tre i blocchi principali che animano il dibattito sui temi salienti per il futuro della Nato.

Il primo è quello dell’Europa dell’est e di una parte dei paesi scandinavi. Questo sostiene una declinazione massimalista della possibile vittoria di Kiev, auspicando il respingimento delle forze armate russe su posizioni pre-2014, un ingresso agevolato dell’Ucraina nell’Alleanza e il crollo del regime putiniano. I paesi che vi appartengono sono convinti che la Nato debba continuare a occuparsi della stessa minaccia di sempre – Mosca – con gli stessi strumenti di sempre – deterrenza e difesa.

Il secondo blocco è quello degli stati anglosassoni. Ai loro occhi la guerra serve lo scopo di impartire una lezione alla Russia, tale da metterla nelle condizioni di non nuocere più a chicchessia.

Considerano l’adesione dell’Ucraina sostanzialmente come una fiche da utilizzare su un futuro tavolo di pace con la Russia e, attualmente, considerano un cambio di guardia al Cremlino – come emerso nella giornata della rivolta della compagnia Wagner – alla stregua di un vero e proprio worst-case scenario.

Questi paesi immaginano una Nato con proiezione sempre più globale, che a tal scopo allarghi il suo il raggio d’azione e rilanci la sicurezza cooperativa con i Paesi dell’Indo-Pacifico invitati a Vilnius – Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda – in funzione di contenimento della Cina. La terza posizione, infine, è quella dell’Europa occidentale e meridionale.

Questo blocco ha una posizione “minimalista” in tema di vittoria, essendo interessato a chiudere il conflitto anche solo ripristinando lo status quo ante 24 febbraio 2022, e piuttosto freddo – come lo è sempre stato – nei confronti dell’ipotesi dell’adesione dell’Ucraina. I paesi che ne fanno parte reclamano una pari attenzione della Nato tra il Fianco est e il Fianco sud e l’ulteriore sviluppo degli strumenti legati alla gestione delle crisi.

L’Italia, che appartiene a quest’ultimo raggruppamento, sta giocando una partita difficile in Lituania, a causa dello sbilanciamento dell’Alleanza a nord-est. Deve ribadire, infatti, che il contenimento di Russia e Cina passa anche per il Mediterraneo orientale, il nord Africa e il Sahel, così come che l’obiettivo del 2 per cento va commisurato con la disponibilità a mettere a fattor comune – e non solo a difesa dei confini nazionali – le proprie risorse militari. 

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