«Un figlio dell’India si erge al di sopra dell’Impero», c’era scritto sul banner della televisione indiana quando Rishi Sunak, nipote di immigrati del Punjab, è stato nominato primo ministro.

La foto del leader conservatore campeggiava su tutte le prime pagine e in tutti i siti di informazione del subcontinente, nelle stesse ore della celebrazione del Diwali, la festa indù delle luci che segna la vittoria del bene sul male.

Qualcuno ricorda che lo stesso Sunak aveva acceso la luce davanti a Downing Street l’anno precedente, quando era cancelliere dello scacchiere. Senza esagerare la portata dell’avvenimento (quanto durerà il suo governo?), è stato il successo di un ibrido, assemblato nel crogiolo della storia britannica e accelerato dalla globalizzazione: gli anglo-indiani (o indù-vittoriani come si fanno chiamare).

Si tratta – a dire degli interessati – di una nuova porzione dell’assemblaggio britannico che va ad aggiungersi ad inglesi, scozzesi, nordirlandesi e gallesi, grazie ai quali il Regno Unito non ha ceduto all’europeizzazione ma con la Brexit avrebbe scelto decisamente la via della Global England.

Non è la mera ripetizione del passato ma una nuova fase della storia britannica. Fin dal 1989 gli anglo-indiani tengono ogni due o tre anni una loro regolare “reunion” globale, in India, Gran Bretagna, Australia o Canada.

Secondo i canoni inglesi non è incentrata sul protagonismo etnico ma piuttosto di classe: anglo-indiani ricchi che partecipano alla vita economica britannica ma più spesso mondiale.

D’altronde la lista degli amministratori delegati di origini indiane nelle maggiori transnazionali anglo-americane (e non solo) è già molto lunga, come Microsoft, Starbucks, Google, Alphabet, Twitter, Adobe, Micron, Motorola, Mastercard, Ibm e così via.

La nomina di Sunak corrisponde ad un salto di qualità: un indù praticante che in parlamento ha giurato sulla Bhagavad-Gita. «Sono profondamente britannico, questa è la mia casa e il mio paese, ma la mia eredità culturale è indiana», ha detto Sunak, i cui nonni erano emigrati in Africa orientale alla fine degli anni Trenta.

I suoi genitori (nati in Kenya e Tanzania) si sono poi trasferiti nel Regno Unito negli anni Sessanta. Più che dell’India o dell’impero, il nuovo premier britannico è un frutto del Commonwealth.

In questi ultimi tempi da Londra abbiamo ricevuto due serie di immagini solo apparentemente contrastanti: il grandioso funerale della regina Elisabetta II, con tutto il suo apparato militare e patriottico; l’accedere ai vertici del paese di cittadini di origine indiana, pakistana e delle ex colonie, fino appunto al nuovo inquilino di Downing Street.

Global England non è ciò che si era immaginato: non un ritorno al passato in cui Londra era una potenza mondiale ma nemmeno il tentativo di salvare il salvabile appoggiandosi al Commonwealth. Piuttosto una nuova Britannia in cui la periferia ha occupato il centro, lasciandosene a sua volta conquistare. 

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