C’è un numero che torna ed è ingombrante: quattrocentomila. Sono 400mila i contadini indiani che negli ultimi quindici anni si sono tolti la vita, per i debiti insoluti, per la povertà, per l’umiliazione. E sono, ancora, 400mila i contadini indiani che da giorni campeggiano all’ingresso della capitale del paese. A fine novembre, muovendosi in massa dal Punjab, dall’Haryana, dalle regioni del nord dell’India dove l’agricoltura è tutto per tutti, hanno cominciato la loro marcia verso Nuova Delhi a piedi, a bordo di trattori e di trabiccoli vari. Sono rimasti inchiodati lì, non si sono spostati di un millimetro. Quando finalmente il governo li ha convocati per parlare si sono portati il pranzo al sacco: non erano disposti a cedere su nulla, tantomeno a mangiare i manicaretti ministeriali. Questo 8 dicembre la protesta culmina con uno sciopero generale: trasporti fermi, scuole e negozi chiusi. Al “Bharat Bandh” aderiranno anche studenti, giovani, e ampie frange di società solidale, non solo gli agricoltori, che parteciperanno in massa. Almeno metà della forza lavoro dell’India sono loro, i contadini. Il motivo della protesta è un pacchetto di leggi sull’agricoltura che «ci fa una paura terribile. Le corporation si prenderanno tutto il mercato e noi agricoltori rimarremo scoperti, senza tutele. Sarà un disastro» dice Kannaiyan Subramaniam, contadino e leader sindacale indiano.

Le tre leggi di Modi

A settembre il governo di Narendra Modi ha fatto passare tre leggi che a suo dire «libereranno» l’agricoltura e gli agricoltori. Quel che è certo è che la liberalizzeranno e privatizzeranno. Modi usa il metodo delle ordinanze: approfittando della pandemia e della governance di emergenza, ha fatto passare i tre testi senza un dibattito parlamentare e senza alcun confronto. I sindacati degli agricoltori possono solo apprendere dai notiziari che il sistema adottato fino a quel momento uscirà completamente stravolto. Il pacchetto ha una caratteristica principale: smantella il tramite (e quindi la tutela) dello stato fra agricoltori e acquirenti, aprendo alle transazioni dirette tra i piccoli coltivatori e i colossi privati. Lascia in sostanza i contadini in balìa delle corporation. Non solo, le leggi prevedono espressamente il divieto per gli agricoltori di fare causa alle grandi imprese, viene tolta loro la possibilità di sollevare casi in tribunale.

Che cosa cambia

Finora era in vigore il sistema “Apmc” (agricultural produce marketing committee) nato nel 1964. Prevede che i contadini debbano vendere il loro raccolto in mercati regolati dallo stato. C’è quindi il tramite dello stato che in parte compra direttamente i prodotti. E lo fa anche perché, come la corte di giustizia indiana ha ribadito, deve garantire il diritto all’alimentazione e dunque una razione minima di cibo a tutti gli indiani. Per la restante parte, si occupa della transazione con i privati. Il ruolo del pubblico si traduce anche in un prezzo minimo garantito. Ora Modi dice che questo sistema non fa che vincolare gli agricoltori a un intermediario corrotto, «perché per decenni sono stati bullizzati dagli intermediari e ora finalmente saranno liberi da avversità». I contadini dovranno trattare direttamente coi privati. E anche se il governo nega, con la fine della intermediazione statale, pure il sistema del prezzo minimo ne uscirà fortemente compromesso. È la principale preoccupazione di chi protesta: senza tutele sul prezzo, sarà una corsa al ribasso, e i tanti piccoli coltivatori dovranno negoziare singolarmente coi giganti dell’industria agroalimentare.

La scelta a favore di pochi

Da tempo il sistema indiano, con tramite statale e prezzo minimo, era sotto attacco: l’Organizzazione mondiale per il commercio spingeva per la liberalizzazione. A ottobre Ue, Usa e Canada si sono rivolti al Wto contestando le politiche “farmer friendly”. Per Rahul Gandhi, leader del principale partito di opposizione, il governo «è in mano alle corporation e vuol rendere gli agricoltori schiavi dei capitalisti». I contadini asserragliati a Nuova Delhi, accusano in particolare i due grandi gruppi Ambani e Adani. Non è un mistero che l’attuale governo flirti coi più ricchi industriali. La demonetizzazione, che ha cancellato milioni di posti di lavoro, e poi la tassa su beni e servizi che ha colpito le attività medio-piccole, sono solo alcuni dei provvedimenti presi da questa leadership a discapito dei “piccoli”. Hanno avvantaggiato invece le grandi società vicine al partito di governo.

Un’altra India

Chukki Nanjundaswamy è una leader sindacale contadina indiana. Suo padre è stato tra i fondatori de “La Via Campesina”, movimento internazionale di organizzazioni contadine. Ha istruito i contadini uno per uno. «Le proteste sono esplose ora un po’ per le difficoltà legate alla pandemia, ma soprattutto perché l’India è grande, bisognava che l’informazione arrivasse a migliaia di agricoltori». I contadini hanno deciso che non esistevano compromessi possibili. Invece il governo non fa che proporre blandi emendamenti. «Sappiamo bene cosa significherebbe essere nelle mani delle multinazionali: sarebbe la fine, il disastro. Già abbiamo avuto qualche esempio» dice Nanjundaswamy. «Il regime di Modi si combina con le pressioni internazionali». La scrittrice Arundhati Roy fa un bilancio senza mezzi termini di un regime che «fu accolto dai maggiori industriali indiani come quintessenza del progresso» e che lei non esita a definire fascista. Nel libro Azadi scrive: «Che Dio ci conceda di riprenderci il nostro paese». Oggi, provano a riprenderselo i contadini.

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