Il 15 agosto 2021 i talebani occupavano Kabul e tornavano al potere in Afghanistan. Quattro anni dopo, l’Emirato Islamico – formula da carta intestata con la quale il regime si autodefinisce – ha trasformato profondamente le istituzioni del Paese. Nel suo ultimo rapporto, pubblicato lo scorso giugno, il relatore speciale per l’Afghanistan Richard Bennett ha sottolineato come la vita dei cittadini sia stata rimodellata, in particolare quella delle donne e delle ragazze, «sistematicamente private della loro libertà di movimento, del diritto all’educazione, al lavoro e alla salute».

Un premio all’imprenditoria

Il nesso tra la catastrofe umanitaria in corso dal 2021 e la costante violazione dei diritti della popolazione femminile è assai evidente: nel luglio del 2022, il Ministero della prevenzione del vizio e la promozione delle virtù emanava un editto che imponeva la chiusura di tutti i saloni di bellezza e i centri di estetica in tutto il Paese. L’impatto economico fu istantaneo: secondo i dati parziali diffusi allora dal Ministero dell’economia dell’Emirato, circa 60mila donne rimasero senza lavoro.

Se da una parte il dicastero che si fa garante del concetto talebano di “pubblica morale” limita, fino a proibirlo, l’impiego femminile, il Ministero del Commercio e dell’Industria mantiene degli spazi aperti all’imprenditoria delle donne: la Camera di commercio femminile continua a essere operativa e organizza periodicamente delle fiere espositive di prodotti artigianali. Questo spiraglio ha permesso alla onlus Nove Caring Humans di lanciare, in accordo con lo stesso Ministero, la prima edizione del Women Business Prize, un riconoscimento volto a sostenere e valorizzare l’imprenditoria femminile in Afghanistan.

Le trattative per l’istituzione del premio sono durate tre mesi, «un tempo tuttavia breve per trovare un’intesa con i rappresentanti del Ministero del Commercio e dell’Industria, che ho incontrato direttamente a Kabul», spiega Susanna Fioretti, fondatrice e vicepresidente di Nove, organizzazione che dal 2013 si occupa di progetti umanitari in Afghanistan. La raccolta delle candidature ha superato le più ottimistiche previsioni: 140 le adesioni provenienti da 15 delle 34 province afghane. «Oltre che dall’alto numero di candidature, siamo rimaste stupite sia dalla varietà dei settori rappresentati, sia dalla determinazione di queste donne, comprese quelle che vivono nelle regioni più remote», prosegue Fioretti, aggiungendo: «Una di loro, non avendo il computer, ha scritto la candidatura a mano, l’ha fotografata e inviata». 

La cerimonia di premiazione si è svolta lo scorso 8 luglio presso una saletta del “Park Star Hotel” di Kabul. Al centro del locale, un vistoso separé di legno divideva le donne dagli uomini, simboleggiando così l’assenso dell’Emirato allo svolgersi dell’evento nei limiti “consentiti”, cioè imposti. Tra le tre vincitrici, al primo posto si è classificata la 27enne Nilab Hakimi, presidente di un’impresa attiva nei settori della logistica, forniture industriali e costruzioni. Al secondo posto Nasrin Mawlany, 22enne di Mazar-e-Sharif, che ha proposto una startup per la produzione e distribuzione di assorbenti riutilizzabili in tessuto anallergico.

«Quello di Mawlany è un progetto che risponde a un bisogno sanitario urgente, contrastando stigma culturali, riducendo i costi elevati dei prodotti in commercio e promuovendo un basso impatto ambientale» afferma Fioretti. Dalla provincia di Daikundi la terza classificata, Marziyeh Arefi, ex funzionaria pubblica che ha ideato una fabbrica di conserve naturali, con una filiera interamente femminili e valorizzando i prodotti locali. «A queste donne, oltre a una somma in denaro verrà data la possibilità di frequentare tre mesi di business menthoring» sottolinea la fondatrice di Nove. Ecco perché questo premio va inteso «come un punto di partenza e non di arrivo. In Afghanistan, Paese che vive da quattro anni una crisi gravissima, ci sono donne che fanno impresa e vogliono contribuire allo sviluppo delle comunità in cui vivono».

Dalla parte delle bambine

Un ulteriore messaggio di speranza arriva dalle bambine e dai bambini ospiti negli orfanotrofi di Kabul e Kapisa – provincia densamente popolata e situata a nord della capitale – progetti umanitari seguiti sempre da Nove. Nei loro disegni i ricordi e i desideri di ciò che manca: chi ha disegnato la propria casa bombardata; chi una casa integra, che rappresenti un luogo sicuro; chi vorrebbe un ospedale che funzioni, e chi spera di tornare a scuola. «Nelle strutture di Kabul e Kapisa non vengono ospitati solo orfani, ma anche figli di famiglie molto povere che non riescono a provvedere al loro sostentamento», spiega Livia Maurizi, coordinatrice dei programmi dell’organizzazione. Colpisce il modo in cui si autorappresentano le bambine: in gruppo, ma di spalle, perché il regime proibisce loro di mostrarsi. E poi ci sono due sorelle, coperte da un lungo velo nero, ma comunque in volo — magari libere. In barba ai talebani.

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