Le rimozioni del 2020, fatte spesso durante rivolte di piazza, hanno fatto molto rumore. Quella del generale Lee dal centro di Richmond, avvenuta dopo un aspro contenzioso legale lo scorso 8 settembre 2021, ha chiuso il lungo capitolo della città della Virginia come ex capitale confederata e centro culturale propulsore del revisionismo della Lost Cause, che sminuiva il ruolo della schiavitù nella guerra, favorendo l’instaurazione della segregazione razziale.

Quella di Thomas Jefferson dalla City Hall di New York, invece, difficilmente trova una ragione plausibile. La commissione ha deciso di rimuoverla (per darla in prestito alla New York Historical Society) non dopo un voto dell’assemblea cittadina ma soltanto perché alcuni consiglieri si sono lamentati della celebrazione di un presidente che «possedeva centinaia di schiavi».

Sarebbe troppo lungo soffermarsi sul contributo ideale di Jefferson all’abolizione della schiavitù, testimoniato dalla frase “Tutti gli uomini vengono creati uguali”, ampiamente criticata da vari esponenti del sud schiavista e alla quale ci sarebbe dovuta essere una dichiarazione ben più forte.

Dovrebbe anche essere superfluo ricordare come Jefferson nella sua veste di presidente degli Stati Uniti firmò la legge che proibiva l’importazione di schiavi nel suolo americano. Non si comportò di conseguenza, come ricorda il suo discendente Shannon LaNier, frutto della sua unione clandestina con la schiava Sally Hemings. Mantenne seicento schiavi che gli garantivano un lussuoso tenore di vita. Ma non è questo il punto.

Il punto è che la città di New York ha un legame ben più profondo con la schiavitù: si può tranquillamente affermare che nel corso della prima metà dell’Ottocento sia diventata ricca grazie al suo porto, che accoglieva il carico di cotone prodotto dal sud schiavista più di ogni altro, sia per la produzione tessile americana che per quella europea.

A partire dal 1822 la metà delle merci che venivano esportate era costituita proprio dal prezioso materiale frutto del lavoro forzato dei neri. La città cresce e prospera e il suo sistema politica si fonda proprio su questa bonanza in arrivo: è grazie a quella che il partito democratico cittadino, in quegli anni dominato dalla struttura semiufficiale dei cavalieri di Tammany Hall diretti dal faccendiere Boss Tweed, poteva mantenere un sistema rodato di lottizzazione dei posti pubblici e di compravendita dei voti.

Quando scoppia la guerra con il sud, mentre gli altri stati del nord fervono di entusiasmo patriottico contro il sud insorto, New York è ben più tiepida: nonostante autorevoli esponenti dell’informazione come il direttore della New York Tribune Horace Greeley fossero alleati del presidente Abraham Lincoln e favorevoli allo sforzo bellico, altri come il giornalista cattolico John Mullaly, editore del Metropolitan Record, si opposero ardentemente alla guerra.

Non erano soli: il sindaco della città Fernando Wood fu tra i fondatori della fazione dei “Copperheads”, le “teste di rame” dei democratici favorevoli a un immediato accordo con la Confederazione e anche a una secessione della città come “Libero stato di Tri-insula” per continuare a fornire al sud un porto per i loro commerci e quindi una linea vitale per i loro rifornimenti.

Non stupisce che Wood, una volta eletto al Congresso, fosse diventato uno dei più accaniti oppositori dell’approvazione dell’emendamento costituzionale che aboliva la schiavitù sul suolo americano.

Questa ostilità esplose pochi giorni dopo la cruciale battaglia di Gettysburg nel luglio del 1863, quando una folla di rivoltosi uccise più di 200 neri e bruciò un orfanotrofio dedicato ai bambini afroamericani. Anche dopo la guerra, il controllo di Tammany Hall sulla politica cittadina continuò.

Nel 1868 la convention democratica  si tenne proprio a New York, nella sede di rappresentanza di Tammany Hall e lanciò un motto che lascia poco spazio a dubbi di qualunque genere: «Questo è il paese dell’uomo bianco, lasciamo che i bianchi lo governino».

Nella piattaforma si legge che «il benessere dei bianchi del sud è legato inestricabilmente a quello del nord». Per molti anni, quindi, New York fu probabilmente la più sudista delle città libere. E questa eredità non è stata in alcun modo discussa, anzi: la statua di uno dei Copperhead democratici, Samuel Cox, è ancora in piedi, nonostante una flebile protesta nell’agosto del 2020.

Stupisce anzi, che il sindaco Bill DeBlasio, che ha nominato la commissione responsabile dello spostamento della statua di Jefferson, abbiamo messo una scorta di polizia a questo discusso monumento.

La riflessione riguardante la continuità tra il partito democratico di quegli anni e quello attuale non è quindi stata lanciata. Molto meglio spostare l’attenzione su un padre fondatore arcinoto per le sue mancanze personali che quantomeno fece qualcosa per limitare la schiavitù, a differenza della New York di quegli anni, che invece fece profitti e diventò uno dei più grandi centri economici della nazione americana grazie al cotone raccolto dagli schiavi minacciati da arcigni guardiani armati di frusta e fucili nel profondo sud.

Certo una riflessione di questo tipo porterebbe lontano e non sarebbe facile, perché porterebbe a una ridiscussione di alcuni argomenti complessi: che fare di personaggi come il già citato Cox, che pure fu un grande sostenitore dei diritti dei lavoratori della Guardia Costiera cittadina? Molte opere pubbliche di quegli anni furono pagate con quel denaro.

Troppo difficile per fare un post sagace su Instagram o per dare sfoggio di virtù social additando il terribile Jefferson, che non ha legami con la città, se non quello di membro del consiglio di amministrazione della New York Historical Society. E girandosi dall’altra parte quando si ricorda che la grandezza storica di New York è anche legata al commercio con il sud schiavista.

© Riproduzione riservata