Il cartello inchiodato sopra alla strada principale annuncia “Benvenuti a Ourilândia” - la terra dell'oro - ma ci accoglie solo una lunga via desolata di edifici costruiti senza criterio, un far west in cui dominano insegne dedicate al metallo prezioso. Nella calura del pomeriggio un ragazzo con una valigetta entra in un “compro oro”. «Ecco un garimpo», mormora il nostro autista pronunciando il nome che qui identifica i cercatori illegali del metallo giallo.

Siamo a Tucumã nel Parà - Stato povero del nord del Brasile, dove si estendono le terre delle popolazioni indigene Kayapò, le più colpite dall'estrazione mineraria illegale che – denuncia Greenpeace - tra il 2010 e il 2021, ha distrutto 20mila ettari di Amazzonia brasiliana. Le aree indigene in Brasile sono protette dallo sfruttamento minerario, ma inoltrandoci in strade sterrate vediamo quanto la norma non sia rispettata.

La vegetazione è interrotta da vaste aree di terreno rossiccio rivoltato da escavatori che scandagliano il letto del fiume. «C'è il mercurio nell'acqua e nel pesce che gli indigeni mangiano», dice Sandro Kayapó, l'operatore sanitario locale che ci accompagna. Il mercurio, usato dai garimpos per separare l’oro dai sedimenti, è talmente velenoso che l'Onu ha chiesto di vietarlo nelle estrazioni minerarie perché può provocare danni cerebrali permanenti e malformazioni alla nascita.

Nei villaggi alcuni membri delle comunità accettano la presenza dei garimpos in cambio di una percentuale del guadagno, essendo una delle scarse fonti di reddito, ma la gran parte sono contrari: «Quando ero ragazzo, il fiume era pulito, ci facevamo il bagno – ci ha detto un indigeno – ma ora i bambini bevono quell'acqua e poi stanno male».

Dalle miniere del Parà ad Arezzo

«Il mercurio mina gradualmente la salute delle persone e per le popolazioni indigene è stato devastante»: Rafael Martins Silva, procuratore di Redenção, ha indagato a lungo sull'estrazione illegale di oro. «In alcune regioni del Pará, oltre il 90% degli indigeni presentano livelli di mercurio nel sangue molto più alti di quelli ammessi dall’Oms». «Nell'ambito dell'operazione Terra Desolata, portata avanti dalla Polizia Federale in collaborazione con la Procura, abbiamo riscontrato spedizioni di oro principalmente verso l'Italia».

L'operazione Terra Desolata ha portato nell’ottobre 2021 all’arresto di due imprenditori italiani: Giacomo Dogi, 32 anni, accusato insieme al padre Mauro Dogi di aver acquistato oro illegale attraverso la società Chm do Brasil: «Acquistavano oro da chiunque, indipendentemente dal fatto che fossero autorizzati a estrarlo», si legge nelle carte della polizia federale ottenute da Reporter Brazil, testata che ha reso pubblica l'operazione, e da questa condivise con Domani.

L'oro veniva poi rivenduto alla raffineria italiana Chimet Spa, gigante mondiale della lavorazione dei metalli con un fatturato di 4,3 miliardi di euro e con clienti quali Apple, Google, Microsoft e Amazon. Chimet – che ha sede ad Arezzo, maggiore distretto italiano dell'oro - ha acquistato da Chm oro per 317 milioni di euro tra il 2015 e il 2020, interrompendo i rapporti dopo l'operazione della polizia brasiliana. 

Le destinazioni misteriose

Tutto l'oro prodotto in Brasile viene esportato e circa il 30% è estratto illegalmente. L’Italia è con il Belgio tra i primi Paesi dell'Ue per quantità di oro importato dal Paese, con 12.901 kg (circa 650 milioni di euro) acquistati tra 2021 e 2022.

L'Italia è anche il principale importatore in Ue, dell'oro proveniente dagli Emirati Arabi Uniti, verso cui il Brasile esporta una crescente quantità di metallo: abbiamo acquistato da questo Paese – che non ha miniere ma è sede di Dubai, crocevia dell'oro, spesso di dubbia origine, proveniente da Africa e Sud America - ben 26,5 tonnellate in due anni (oltre 1,3 miliardi di euro). 

Ma capire dove l'oro brasiliano vada a finire è difficile, a causa della scarsa trasparenza del settore. Attraverso istanze di accesso agli atti abbiamo scoperto che sono tre le aziende che hanno importato l'85% dell'oro brasiliano e tre quelle che hanno acquistato il 98% di quello proveniente dagli Emirati, nel 2022. Ma le principali raffinerie italiane – Chimet, Italpreziosi e Tca – tutte con fatturati miliardari – dichiarano di non aver importato oro da Brasile e Emirati Arabi Uniti nell'ultimo anno. Non escludono però di aver lavorato il metallo proveniente da quei Paesi.

Dalle nostre ricerche è emerso che l'importatore ufficiale potrebbe essere una delle società che si occupa di scaricare l'oro sotto vigilanza armata negli aeroporti e seguire le procedure doganali. Oppure un'altra raffineria: «Spesso ci sono rapporti intra-aziendali con fatturazioni del metallo tra aziende concorrenti; se una società ha bisogno di oro e non ce l’ha, compra da un'altra azienda», afferma Nunzio Ragno presidente di Antico (Associazione Nazionale Tutela Il Comparto Oro).

Nessun controllo pubblico

Dal 2021 è in vigore il regolamento europeo 2017/821 sulla due diligence secondo cui ogni azienda che importa più di 100 kg di oro l'anno deve stabilire «un sistema di controlli nella catena di approvvigionamento, che includa la miniera di origine del minerale», identificare i rischi di violazioni di diritti umani e ridurli, ad esempio interrompendo l'acquisto da società che potrebbero vendere oro illegale. Ma chi controlla la due diligence delle aziende? Dovrebbero farlo gli Stati membri – da noi l'incaricato è il ministero delle Imprese e del Made in Italy - ma in Italia ancora non è stato fatto alcun controllo: il 29 agosto 2023 il ministero ci ha informato che è in corso la selezione del personale che dovrà occuparsene e della società che dovrà formarlo.

Ad oggi gli unici controlli sui processi di due diligence sono affidati a società private di certificazione. La più importante è la London Bullion Market Association (Lmba) autorità internazionale dei metalli preziosi. «Far parte della Good Delivery List ti permette di vendere l'oro che affini nel mercato di Londra, dove si trovano le banche più importanti, Hsbc, Ibc, Icbc - spiega Alan Martin, capo dell'ufficio per l'approvvigionamento responsabile di Lbma - esserne espulsi significa la fine dei loro affari».

Ma dal 2012 ad oggi sono state solo 27 le raffinerie rimosse dalla Good Delivery List. Tra queste 6 sono russe, sospese a seguito dell'embargo. Le società italiane ammesse nella lista sono le tre società dell'oro aretine con fatturati a nove zeri: Chimet, Italpreziosi e Tca. «La due diligence è effettuata dalle raffinerie stesse – spiega Martin - ogni anno viene poi fatta una valutazione da parte società di revisione riconosciute a livello internazionale». In riferimento al caso di Chimet – che secondo la polizia brasiliana avrebbe importato oro estratto illegalmente per 5 anni, mentre era certificata da Lbma - Martin sottolinea come la legge del Paese sudamericano, al tempo di quegli acquisti, prevedeva che la responsabilità fosse solo del primo venditore di oro, ovvero Cooperouri, la cooperativa de garimpeiros de Ourolandia: «C'era una falla nella legge che ha permesso al fornitore di Chimet di fare un abuso ma quello che avvenne è legale».

L'affidabilità del processo di certificazione della Lbma è oggi messa in dubbio da un'azione del Leigh Day, studio legale di Londra che assiste le famiglie di due ex minatori della Tanzania uccisi nel 2019 in una miniera d'oro che riforniva una raffineria certificata dal Lbma. «I nostri clienti sostengono che la Lbma ha continuato a certificare la società che ha raffinato l’oro della miniera nonostante le segnalazioni di gravi violazioni dei diritti umani», dice Alex Wessley, avvocato associato a Leigh Day.

«In questo caso, la raffineria era una società svizzero-indiana, la Mmtc-Pamp, il cui presidente era nel consiglio di amministrazione della Lbma», aggiunge Wessley. «La struttura di governance della Lbma permette questi conflitti di interesse: molti dei membri del consiglio provengono da una banca, da una raffineria o da una miniera». «Quando le aziende sono coinvolte in illeciti finanziari, la Lbma può agire molto velocemente – lo abbiamo visto con l’azione rapida dopo le sanzioni contro la Russia – sottolinea - ma con i diritti umani e gli abusi ambientali, sembrano rispondere in modo molto diverso». 

Questa inchiesta è stata realizzata con la collaborazione di Hyury Potter, Quentin Noirfailisse e Olivier Christe e con il supporto finanziario di Journalismfund e del programma Investigative Journalism 4 Europe

© Riproduzione riservata