La svolta più radicale che Xi Jinping sta provando a imprimere alla Cina riguarda il suo Partito comunista, i cui funzionari dovrebbero diventare incorruttibili, uomini nuovi al servizio del «socialismo con caratteristiche cinesi». Eppure a non pochi tra questi integerrimi servitori del popolo capita di macchiarsi di adulterio, una grave infrazione delle norme di partito. Proprio l’infedeltà sarebbe all’origine della sparizione dalla scena pubblica, dal 25 giugno scorso, di Qin Gang, ufficialmente per «motivi di salute». In realtà, secondo voci che la censura ha lasciato circolare su Internet, il tutto sarebbe legato a una relazione extraconiugale e a un figlio avuti con una reporter cinese residente negli Stati Uniti.

Il volto della Cina

Le indiscrezioni filtrate su WeChat e Weibo sostengono che Qin non è più il ministro degli Esteri della seconda economia del pianeta, rimosso senza spiegazioni plausibili nel mezzo di un frenetico andirivieni di diplomatici Usa a Pechino.

Originario della metropoli di Tianjin, il cinquantasettenne Qin negli ultimi due anni è stato elevato da Xi (in coincidenza con il XX congresso del partito che l’ha reso il leader più potente della Rpc) da responsabile del protocollo diplomatico ad ambasciatore a Washington, a ministro.

Un ruolo quest’ultimo di esecutore delle direttive della commissione centrale Affari esteri (presieduta da Xi e diretta da Wang Yi) e tuttavia pur sempre, dal 30 dicembre scorso, volto ufficiale della Cina nei vertici internazionali.

Dunque, se il tradimento di Qin verrà confermato (con tanto di espulsione dal partito e incriminazione), ciò potrebbe creare qualche imbarazzo al numero uno del Pcc. E un po’ di grane alla macchina organizzativa del partito, che dovrebbe rimpiazzare alcuni fedelissimi che Qin si è portato dietro nel ministero, e che verrebbero epurati con lui.

Ma soprattutto, questo incidente, e le perplessità che sta provocando nelle capitali straniere, rimanda a una questione più generale, concausa delle incomprensioni tra la Cina e l’occidente: la “opacità” del sistema politico della Rpc.

Che in questo giallo è dovuta al fatto che la preoccupazione immediata del partito non è stata per le ripercussioni internazionali del silenzio prolungato sulla sorte del suo alto funzionario, ma per la stabilità interna.

Nei casi di “corruzione”, i panni sporchi si lavano nel partito, attraverso gli organismi giudiziari paralleli. L’obiettivo primo e ultimo del Pcc è il rafforzamento della sua presa sulla società, per il mantenimento del potere.

Quando c’è da sradicare un papavero, la commissione centrale di vigilanza istruisce il procedimento, il dipartimento di propaganda predispone la narrazione per l’opinione pubblica cinese e quella da veicolare fuori dai patri confini, e solo a quel punto si comunica cosa è successo. O, meglio, cosa l’audience deve credere sia successo.

Alla fine del 2022 erano 98 milioni (il 6,9 per cento della popolazione) i cinesi che hanno scelto di vivere all’interno di questo rigido sistema di norme, che prevede, tra l’altro, il divieto per i membri del partito di sposare non iscritti.

Un universo parallelo fatto di ricompense e punizioni ispirate in parte alla morale socialista, in parte all’antica corrente filosofica del legismo. Dettami che nella “nuova èra” vengono rispettati soprattutto dai tesserati più anziani e dai più giovani – quelli cresciuti sotto Mao e Xi – i cui comportamenti sono improntati al conformismo culturale e ideologico. Finché non ci scappa la scappatella.

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