Joe Biden ha svelato ieri l’attesissimo ordine esecutivo che vieterà a investitori e venture capital statunitensi di fare affari in Cina (la seconda economia del pianeta) nei settori dei semiconduttori e della microelettronica, dell’informatica quantistica e in alcuni sistemi di intelligenza artificiale.

Si tratta, tra quelli approvati finora, del provvedimento che meglio rende l’idea di quale sia la posta in gioco dello scontro titanico tra Pechino e Washington – le tecnologie chiave per il progresso industriale e militare – e di quanto alla Casa bianca non contemplino un’opzione diversa dalla vittoria, da conseguire anche ricorrendo all’intervento del governo per limitare la libera circolazione di capitali privati.

Per il presidente gli Stati Uniti sono alle prese con una «emergenza nazionale, che richiede di far fronte alla minaccia di avanzamento, da parte di paesi che ci preoccupano, in tecnologie e prodotti fondamentali per le capacità militari, di intelligence, di sorveglianza o cyber». L’ordine esecutivo prevede l’istituzione di un meccanismo di controllo degli investimenti in uscita, che sarà gestito dal ministero del commercio.

L’annuncio di Biden è arrivato nel primo anniversario dell’entrata in vigore del “Chips and Science Act”, con il quale il Congresso Usa ha stanziato 280 miliardi di dollari per sussidi, agevolazioni fiscali e altre misure a sostegno della manifattura dei semiconduttori negli States, crollata dal 37 per cento di quella globale all’inizio degli anni Novanta all’attuale 12 per cento.

Il precedente di Clinton

Immediata la risposta del ministero del commercio di Pechino, che ha espresso “gravi preoccupazioni”, riservandosi il «diritto di adottare misure in merito alla situazione». Secondo Pechino «gli Stati Uniti stanno smentendo la loro difesa dell’economia di mercato, del principio della concorrenza leale, influenzando le decisioni commerciali delle aziende, distruggendo l’ordine commerciale internazionale e danneggiando seriamente la sicurezza delle catene di approvvigionamento globali».

Per condividere con corporate America e con i paesi alleati (la Commissione europea ha recentemente abbozzato misure simili) le nuove norme prima della loro entrata in vigore è previsto un periodo di 45 giorni.

Ieri la Semiconductor Industry Association, che il mese scorso aveva invitato ad «allentare le tensioni e cercare soluzioni attraverso il dialogo, non un’ulteriore escalation», ha chiesto a Biden di continuare ad assicurare ai produttori Usa un accesso senza ostacoli al mercato cinese.

Anche stavolta – come trent’anni fa per la disfida della clausola di “nazione più favorita” concessa alla Cina in ambito commerciale, che Bill Clinton e i sindacati volevano revocare – Wall Street costringerà la politica a tornare sui suoi passi, per difendere gli interessi delle grandi società quotate in borsa?

Il recinto del cortile hi-tech

Rispetto a quel 1993, l’America non vede più la Cina solo come un’opportunità economica, ma soprattutto come una questione di sicurezza. Per questo al congresso democratici e repubblicani hanno depositato proposte di decoupling dalla Cina di Xi Jinping che si spingono molto più in là di quanto osato da Biden.

La ratio di queste ultime restrizioni senza precedenti nelle relazioni sino-statunitensi è stata spiegata così da un funzionario dell’amministrazione Biden, che ha chiesto di rimanere anonimo: i venture capital «connettono le persone agli esperti. La Cina non ha bisogno dei nostri soldi; sono esportatori netti di capitale. Quello che non hanno è il know-how, e il know-how che abbiamo visto è spesso molto connesso a specifici tipi di investimento».

Per dimostrare quanto saranno “chirurgiche” le limitazioni appena varate, negli Stati Uniti impiegano la metafora del “piccolo cortile con il recinto alto”. Eppure provvedimenti mirati a determinate tecnologie, possono ripercuotersi negativamente su interi settori commerciali.

Mentre una ulteriore riduzione forzata degli investimenti di venture capital Usa in Cina – già crollati da 19 miliardi di dollari nel 2018 a 1 miliardo di dollari l’anno scorso, anche per effetto della pandemia – può danneggiare l’attrattiva dell’industria hi-tech cinese presa di mira e, dunque, ridurre anche i finanziamenti in arrivo da altri paesi. Con la conseguenza che quella cinese potrebbe diventare sempre di più una “innovazione autoctona” (zìzhŭ chuàngxīn), che è poi lo scenario che la leadership cinese si sta preparando da qualche anno ad affrontare.

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