Un paio di anni fa il Consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, sembrava alla fine dei suoi giorni alla Casa Bianca. La responsabilità del disastroso ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, momento di rottura per l’amministrazione di Joe Biden, si riteneva fosse per la maggior parte sua: aveva minimizzato i rischi successivi alla partenza delle forze americane, senza minimamente prendere in considerazione un collasso dello stato.

Oggi la stessa persona sta giocando una partita fondamentale nel forgiare gli accordi tra Israele e Hamas che prevedono finora la liberazione di 70 ostaggi e l’estensione della tregua nel conflitto iniziato lo scorso 7 ottobre.

Il quarantaseienne Sullivan ha così in parte ristabilito la reputazione  di cui godeva nei circoli democratici: Hillary Clinton lo aveva definito il «diplomatico perfetto» e aveva svolto un forte ruolo anche nei negoziati sul nucleare iraniano.

Non sempre le sue intuizioni però sono state ascoltate: nella sua veste di stratega della campagna elettorale presidenziale del 2016 fu l’unico a consigliare a Clinton di passare più tempo negli stati del Midwest che poi avrebbero votato per Trump con un margine estremamente risicato.

Ha pagato, quindi, la benevolenza del presidente Biden, che nel settembre 2021 ha deciso di mantenere Sullivan al suo posto rimanendo fedele alla sua nomea di capo molto esigente, ma leale nei confronti dei suoi collaboratori, piuttosto propenso a concedere una seconda chance.

Il piano di Gaza

Nel caso di Sullivan, la fiducia è stata ben riposta, tanto da aver pensato sin dai primi giorni a un piano per liberare gli ostaggi catturati e detenuti a Gaza: come prima cosa, incaricò il principale advisor del presidente sui temi mediorientali, Brett McGurk, di mettere su insieme a un altro consigliere di nome Josh Geltzer, un gruppo di lavoro insieme con il Qatar per cercare di liberare quanti più ostaggi possibile e fungere da ponte tra Israele ed Hamas.

Una lenta mediazione, fatta di tira e molla, che ha convinto pian piano anche il governo israeliano e il premier Benjamin Netanyahu. Il risultato sembrava sul punto di sfumare intorno al 18 novembre, prima di una definitiva smussatura degli angoli che ha portato a una tregua iniziata il 24 novembre.

Un patto negoziato nei minimi dettagli, tanto da aver affrontato una delle questioni che più lasciava perplessa la parte israeliana: uno stop ai combattimenti non avrebbe fornito ad Hamas tempo vitale per ricostruire le proprie difese? E l’organizzazione islamista non avrebbe fatto man bassa degli aiuti militari?

Per quest’ultimo tema, Sullivan, interpellato alla Cnn, ha spiegato che i camion di aiuti vengono ispezionati al valico di Nitzana dalle forze israeliane e poi gli aiuti vengono distribuiti alla popolazione poco dopo. In questo modo, solo la scorsa domenica sono arrivati nella Striscia circa 200 autoarticolati.

Sui vantaggi che ne può trarre Hamas, invece, Sullivan non ha potuto garantire in un’intervista all’Abc domenica scorsa, sostenendo che «non si può negare che anche i terroristi» possano usare l’accordo non solo per riorganizzarsi, ma anche per sfruttare la cosa anche a scopo propagandistico.

Certo è che però, nonostante almeno due donne americane rimangano nelle mani di Hamas, la liberazione di una bambina di quattro anni di nome Abigail Evan, con il doppio passaporto israeliano e statunitense, ha fornito all’amministrazione un’indubbia vittoria mediatica che fa fiatare il presidente Biden, ormai assediato da varie parti. Probabilmente senza l’infaticabile lavoro di Sullivan tutto ciò non ci sarebbe stato.

Adesso la speranza va ben oltre: l’obiettivo è che la guerra vada via via spegnendosi e che finiscano gli attacchi indiscriminati di Israele a civili palestinesi. E il consigliere per la sicurezza nazionale non esclude di cogliere il suggerimento del senatore Bernie Sanders, pubblicato in un editoriale su New York Times lo scorso 22 novembre, di vincolare i prossimi aiuti a Tel Aviv al rispetto di alcune condizioni.

Cambio di direzione

Un graduale cambio di rotta che tiene conto, ancora una volta, della situazione elettorale del presidente, dato che 310mila americani di origine araba vivono in Michigan, stato vinto da Biden nel 2020 e da Trump nel 2016, e alcuni di loro hanno manifestato di fronte alla casa del senatore dem Gary Peters con un canto che suona minaccioso: «A novembre ce ne ricorderemo», riferendosi al sostegno di Biden allo stato ebraico.

Un lento cambio di atteggiamento sulla questione israelo-palestinese, testimoniato anche dalle forti critiche della Casa Bianca al finanziamento di nuovi insediamenti illegali in Cisgiordania da parte del governo Netanyahu, che serve anche in ottica 2024. Questo Sullivan lo sa bene, perché riterrebbe inaccettabile essere nuovamente “tra i colpevoli” di una nuova disfatta dem che al momento però appare probabile.

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