Il presidente americano Joe Biden ha avvisato il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che ormai «Israele sta perdendo il sostegno del mondo a causa dei bombardamenti indiscriminati» su Gaza e che il suo governo, il più a destra nella storia del paese, deve essere cambiato.

Quando gli americani fanno pressione sui governi amici, tutto di solito comincia in maniera graduale e molto diplomatica, ma l’avvertimento per il primo ministro Netanyahu non va sottovalutato: i disaccordi sul dopoguerra a Gaza e la nascita di uno stato palestinese sono l’inizio di un confronto serrato e senza esclusione di colpi tra i due alleati che non resteranno solo parole di circostanza. A breve seguiranno i fatti.

Bibi Netanyahu ha governato per 14 anni di fila Israele, con l’esclusione della sola parantesi del governo di Yair Lapid per 363 giorni, un periodo rilevante per una democrazia liberale.

Per Washington, infastidita dalla pesante situazione ucraina, è ora di cambiare rotta in Medio Oriente e per questo ha inviato a Gerusalemme Jake Sullivan, il fidato consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente per discutere “l’exit strategy” dopo 18mila morti palestinesi e il monito del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che la situazione umanitaria della Striscia «è oltre il punto di rottura».

L'arrivo di Sullivan - sebbene già programmato - avviene ad un giorno di distanza dalle critiche del presidente Joe Biden al governo a Gerusalemme sul fatto che la guerra a Gaza contro Hamas con le morti dei civili stiano alienando le simpatie del modo verso lo stato ebraico.

Secondo alcuni media, Israele teme che Sullivan presenti una scadenza di poche settimane per finire la guerra. Il Wall Street Journal afferma, invece, che l’esercito israeliano starebbe preparandosi a inondare di acqua di mare la rete di cunicoli di Gaza, dove però potrebbero essere tenuti anche gli ostaggi.

Il tutto mentre Avigdor Lieberman, ex ministro degli Esteri e della Difesa israeliano e fondatore del partito Israel Beytenu, in un'intervista alla radio 103Fm ha affermato: «Dobbiamo completare la guerra a Gaza e prepararci per un'altra al nord, è inevitabile». Un incubo per Biden.

I calcoli elettorali 

Le primarie presidenziali dei repubblicani, che come dal 1976 a oggi cominciano il 15 gennaio dai caucus dello stato agricolo dello Iowa, sono ormai alle porte.

Biden è diviso su due fronti di guerra e sta rischiando molto con una opinione pubblica stanca di conflitti in generale e in particolare della conduzione dello scontro armato a Gaza da parte di Nethanyahu.

Il presidente americano sa bene che nessun candidato alla presidenza può vincere senza raccogliere i fondi sufficienti per una campagna elettorale lunga e logorante, ma sa anche che senza i voti dei giovani democratici e delle minoranze etniche la partita è persa soprattutto negli “swing state”, gli stati molto in equilibrio. Biden deve mostrarsi duro con il premier Netanyahu perché sta perdendo molti consensi tra gli arabo americani e altre minoranze che sono essenziali in stati come il Michigan.

E Biden vuole evitare di fare la fine politica di Jimmy Carter che perse le elezioni a favore di Ronald Reagan per non aver saputo gestire la crisi degli ostaggi americani prigionieri nell’ambasciata americana in Iran nel 1979.

Dall'illuminazione dell'albero di Natale alla Casa Bianca ai tour elettorali in Massachusetts, Colorado, Nevada, California e Pennsylvania, Biden ha spesso dovuto affrontare un malessere crescente dei suoi sostenitori democratici sulla politica americana in Medio Oriente, ricorda The Hill.

Il senatore Bernie Sanders, una icona della sinistra del Partito democratico, ha chiesto ai rappresentanti del suo partito e alla Casa Bianca, in un intervento sul Washington Post, di condizionare gli aiuti militari del famoso pacchetto che unisce i finanziamenti a Ucraina, Israele e sicurezza del confine meridionale con il Messico, a un comportamento più rispettoso da parte dell’esercito israeliano dei civili a Gaza.

Segno di una pressione montante della ala sinistra dei democratici sulle politiche moderate di Biden in politica estera.

La destra globale si rafforza

Non ci sono solo calcoli elettorali interni ma anche ragioni geopolitiche a spingere per una fine della ostilità a Gaza e per un rinnovato compito dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen nella Striscia.

La “destra globale”, dopo il trionfo di Javier Milei in Argentina, si è ulteriormente rafforzata nell’emisfero meridionale delle Americhe. Da Bolsonaro a Trump, da Salvini a Abascal, la vittoria dell'ultraliberista Milei è stata salutata con l'augurio che il nuovo vento sovranista si diffonda e questo nuova coalizione delle destre mondiali spingerà il presidente Biden a chiudere in fretta la partita della Striscia di Gaza evitando che il conflitto si estenda in Medio Oriente per evitare di perdere alleati importanti come l’Arabia saudita, il maggior produttore di petrolio nell’Opec, o la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che pur essendo nella Nato, non crede più nel predominio dell'influenza occidentale e sta aprendo a Russia e Cina, i due maggiori nemici delle democrazie liberali.

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