Che cos’è il liberalismo? L’ampiamente dibattuta copertina dell’Economist contro la «sinistra illiberale» costringe di nuovo a porsi l’eterna domanda. Che non esista una risposta chiara e distinta su cui tutti concordano felicemente è la madre di tutte le seccature per chiunque voglia capire un pezzo non secondario del mondo in cui viviamo.

Liberalismo è un termine-ombrello che copre dottrine, inclinazioni, persuasioni, norme e pratiche stratificate intorno alle quali ci si affanna da secoli. Per complicarci la vita abbiamo anche fatto una gran confusione con i termini. In America i “liberal” sono quelli di sinistra, i loro oppositori sono i conservatori, che però in senso europeo sono liberali (o almeno lo erano prima che arrivasse Trump). Nell’Italia di Croce e Einaudi si è affermata la fuorviante distinzione fra liberalismo e liberismo, che ha dato corda alla diceria che si possa abbracciare il primo rigettando completamente il secondo. Si è poi inevitabilmente perseverato introducendo nel vocabolario “neoliberismo”, che nel mondo anglosassone è “neoliberalism” e riconciliare tutte le sfumature è ormai impossibile. L’Economist cerca di mettere un po’ di ordine concettuale e sostiene che al cuore del «liberalismo classico» c’è la convinzione che «il progresso umano procede attraverso il dibattito e le riforme» e che l’esatta direzione di tale progresso «non sia conoscibile», perché deve emergere in modo spontaneo e dal basso, non è mai imposta in modo coercitivo o autoritario.

Il settimanale britannico dice che la traiettoria del liberalismo occidentale si è sviluppata negli ultimi 250 anni, periodo nel quale ha portato al mondo enormi benefici e avanzamenti di ogni genere, dal benessere economico ai tribunali indipendenti passando per il welfare, il parlamentarismo, le libertà fondamentali e i diritti individuali.

Allarmato, il settimanale scrive che il liberalismo classico oggi è minacciato da forze illiberali. Queste forze si esprimono a destra nelle forme esplicitamente autoritarie e populiste di Trump, Orbán, Bolsonaro e simili; a sinistra prendono la forma assai meno temibile, ma in realtà non meno minacciosa, delle battaglie progressiste e woke sull’identità che dietro l’ottimo proposito dell’avanzamento dei diritti rivelano dogmatismi, istinti vendicativi e rivendicazioni rivoluzionarie che minano quello spirito del dibattito e della riforma che l’Economist pone al cuore dell’idea liberale classica. Definendo queste minacce come “illiberali”, il settimanale le colloca, appunto, al di fuori del perimetro liberale e in aperto antagonismo con esso. Semplificando molto: da una parte c’è il liberalismo classico buono, dall’altra gli illiberalismi cattivi, di destra o di sinistra. È la rappresentazione di un conflitto aperto fra forze contrapposte.

La falsa opposizione

Si ritorna alla domanda iniziale: che cos’è il liberalismo? Nel gigantesco conflitto delle interpretazioni ci sono almeno due inquadramenti fondamentali per approssimare una risposta. Il primo, quello adottato dall’Economist, colloca la dottrina liberale nell’alveo dell’illuminismo e fa riferimento al pensiero, fra i tanti altri, di John Locke e poi di John Stuart Mill, che fra il Diciottesimo e Diciannovesimo secolo hanno costruito l’architrave dell’edificio liberale, che nel tempo è stato poi ampliato, restaurato, esteso e rifinito, in un incessante processo che continua ancora oggi. Questa lettura mette l’accento soprattutto sulla dimensione politica ed economica del liberalismo. L’altro inquadramento, invece, contempla una definizione più ampia di liberalismo, riferendosi a quella visione del mondo che in un punto imprecisato della proto-modernità, vagamente collocabile all’alba del Rinascimento, prende a soppiantare la concezione classico-aristotelica che era stata prevalente per secoli nella cultura occidentale. Questa ipotesi non trascura le conquiste politiche ed economiche del liberalismo, ma si concentra sulla sua dimensione antropologica. Significa che il portato fondamentale di questo liberalismo in senso lato è l’emergere di un nuovo soggetto: l’individuo. Il soggetto che nasce nella culla della modernità liberale ha alcune caratteristiche che lo distinguono dai suoi predecessori.

È un individuo che si autodetermina, fa riferimento a una concezione principalmente negativa della libertà, cerca il proprio compimento nel processo di liberazione dalle strutture e dalle gerarchie del mondo di prima, stabilisce come inviolabile lo spazio della propria privatezza, guarda la realtà attraverso la lente dell’io e delle sue preferenze, si trova in dotazione praticamente dalla nascita una concezione progressista della storia e così via. Nell’organizzazione del mondo moderno l’individuo liberale ha prodotto essenzialmente due cose: lo stato e il mercato moderni. Entrambe sono state elaborate prendendo come misura l’individuo, creatore e destinatario dei modelli organizzativi e sociali con cui ha inteso dare ordine e senso al mondo. In sintesi, questa visione “larga” del liberalismo sostiene che tutte le strutture – politiche, sociali, giuridiche, economiche – che il pensiero liberale ha introdotto o rimodellato nei secoli dipendano essenzialmente dalla nascita di un nuovo soggetto.

Neutralità

Una delle trovate più interessanti del liberalismo politico contemporaneo è stata quella di affermare la propria neutralità. Cosa significa? Che l’idea liberale si pone come neutrale rispetto alle concezioni della vita buona degli individui. La promessa ideale della società liberale così com’è stata articolata, ad esempio, da John Rawls è quella di non avere un contenuto, di non proporre/imporre una tavola di valori alle persone, di non inculcare credenze, di non dire cosa ciascuno dovrebbe pensare o fare ma soltanto di istituire strutture vuote che regolano la convivenza pacifica e possibilmente equa di una pluralità di individui con diverse concezioni, valori di riferimento, preferenze.

Questa caratteristica è stata ampiamente criticata da varie angolature e una delle osservazioni ricorrenti è che in realtà la struttura liberale non è affatto neutrale, proprio perché mette al suo centro un individuo che ha certi tratti, un certo orientamento, guarda il mondo da una certa postura, intende la libertà in un certo senso e agisce dentro strutture – lo stato, il mercato – che esibiscono a loro volta alcuni caratteri specifici, non sono cornici vuote dentro le quali ognuno dipinge ciò che vuole.

Ricapitolando: il liberalismo classico di cui parla l’Economist è soltanto un segmento – importante, ma un segmento – di quello che i critici del liberalismo “largo” considerano in modo più vasto e più profondo (il rischio, semmai, è che guardino troppo in profondità, vedendo tracce di liberalismo anche dove non ce ne sono). Che cosa c’entra tutto questo con la «sinstra illiberale» che il settimanale denuncia come pericolosa? Se si accetta l’inquadratura “larga” del liberalismo, la versione progressista della identity politics che l’Economist porta solennemente davanti al tribunale del liberalismo classico appare come una variante del liberalismo stesso, non come una sua forza d’opposizione.

Dialettica identitaria

La politica identitaria si basa, appunto, sull’affermazione delle identità personali e di gruppo, il che ci riporta immediatamente nell’ambito dell’individuo, fondamento antropologico di un impianto liberale che poi ha preso mille direzioni diverse, ma sempre legate a una medesima concezione di fondo. In questa prospettiva, le rivendicazioni particolarmente assertive di diritti, uguaglianza, riconoscimento, i propositi di rovesciare strutture di potere consolidate da parte della «sinistra illiberale» sono in realtà rese possibili proprio dal liberalismo, si muovono all’interno della dialettica liberale, non al di fuori di essa, e dunque la distinzione fra “noi” e “loro” che l’Economist brandisce come premessa del ragionamento si dimostra particolarmente fragile.

In realtà il settimanale si trova a criticare movimenti che incarnano lo svolgimento naturale delle premesse liberali, non il loro tradimento.

Sintetizzando brutalmente: il liberalismo (a inquadratura larga) ha prodotto la identity politics e la dialettica delle identità ha poi dato origine a movimenti sociali che hanno una curvatura diversa da quella che l’Economist preferisce, e per criticarli dice che non sono davvero liberali, sono l’opposto del liberalismo, quando è difficile immaginare a quale altra eredità concettuale e filosofica possano far riferimento (il marxismo sarebbe la risposta naturale, ma sul complicato rapporto marxismo-liberalismo si tornerà un’altra volta).

Su questo giornale la filosofa Giorgia Serughetti, criticando l’equivalenza fra destra e sinistra illiberale proposta dal settimanale, ha scritto che «è del tutto corretto – persino ovvio – distinguere i “liberali classici” dagli attori della “sinistra”».

La domanda è: ma è davvero così ovvio? Non è che i liberali se la stanno prendendo con le contraddizioni che erano già implicite nelle premesse del discorso liberale?

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