Se avete firmato petizioni o siete scesi in piazza contro gli ogm una ventina di anni fa, quel che segue non vi lascerà felici. Idem se al supermercato comprate solo i cosiddetti prodotti cento per cento italiani e dribblate a colpo sicuro l’olio di palma. Ma sarebbe bene andare avanti lo stesso a leggere, tanto c’è poco che si possa fare. Tranne trasferirsi in campagna e mangiare solo prodotti del proprio orto. Sconditi però. Pochi effetti della globalizzazione di inizio millennio sono irreversibili quanto le nuove catene produttive del cibo. E nulla supera per effetti pratici il successo della cosiddetta agricoltura tropicale. Che non è tanto poter servire un mango ai parenti alla cena di Natale o trovare sotto casa un frullato all’açai, novità piacevoli ma minime rispetto a quello che è stato l'impatto dei cambi di paradigma su colture e climi. Una rivoluzione avvenuta in pochi decenni che potremmo riassumere così: sono state superate quelle limitazioni di natura, o di precoce manipolazione umana, che stabilivano cosa poteva essere piantato e raccolto con successo a una certa latitudine. Poi, certo, si può obiettare sulla qualità di un bollicine metodo champenoise prodotto a latitudine otto gradi sud, cioè a un passo dall'equatore. Ma intanto oggi esiste.

Il maggior centro di ricerca al mondo, il garage dell'agricoltura tropicale, si trova in una città di mezzo milione di abitanti del sud del Brasile, Londrina. Qui ha sede dagli anni Settanta del secolo scorso l’Embrapa, un ente pubblico, la cui divisione più importante si occupa di soia, la famosa proteina vegetale. La quale ha permesso, spiega il responsabile Alexandre Nepomuceno, «la riconquista del nostro suolo».

«Si tratta della più grande rivoluzione nella produzione di alimenti del pianeta, e tutto è avvenuto soprattutto qui in Brasile – spiega il ricercatore – I paesi tropicali e subtropicali hanno tolto a quelli di clima temperato il monopolio di gran parte delle colture, grazie alla ricerca e poi al trasferimento di tecnologie ai produttori. La soia è il gioiello, sia per quantità sia per impatto sulle catene alimentari».

A seguire vengono il mais, il cotone, gli agrumi, tutti gli ortaggi, l'ulivo, la vite. E a breve toccherà al grano, spazzando via l'immagine romantica del sussidiario delle elementari con il chicco che riposa sotto la neve per svegliarsi a marzo.

Dove finisce la soia

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Ingenuo pensare che la soia serva solo a insaporire il sushi, preparare gli spaghetti cinesi o il latte finto. Questi sono utilizzi minimi. Oggi le esportazioni dal Brasile, primo produttore al mondo testa a testa con gli Stati Uniti, volano in Asia ma anche in Europa, dove la leguminosa è alla base dell'alimentazione di quasi tutti i bovini, suini, polli e persino pesci d'allevamento che arrivano sulla nostra tavola.

Quindi la soia finisce nella carne, il latte, le uova, i formaggi e l'orata d’allevamento al ristorante. «Al momento è la principale fonte di proteina a buon mercato del pianeta, e all’orizzonte non si vedono alternative», spiegano all’Embrapa. Considerando che ormai oltre il 90 per cento della soia che arriva dall’America del sud è geneticamente modificata, il rischio che persino la caciotta del contadino chilometro zero sia, per cosi dire, “contaminata ogm” è assai elevato.

Le mucche da carne o da latte che si nutrono con sola erba o foraggio nel nostro continente quasi non esistono. L’aborrita soia ogm brasiliana, insomma, noi la ingeriamo tutti i giorni. Con buona pace delle rassicurazioni autarchiche sulle etichette. E soprattutto della legislazione che tuttora proibisce da noi il geneticamente modificato: è tenuto fuori dalla porta ma rientra dalla finestra.

Gli inizi

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La storia della soia brasiliana negli ultimi trenta anni sta all'agricoltura come il microchip all'informatica, un’accelerazione continua che ha cambiato tutto. Lo scrittore e documentarista João Moreira Salles ha definito l’agricoltura tropicale “il nostro uomo sulla Luna”.

Va detto che l’intuizione la ebbero i governi militari degli anni Sessanta e Settanta, dittature stataliste. All’epoca l’obiettivo era soprattutto ridurre la dipendenza dalle esportazioni. Prima di rompere i paradigmi consolidati, difatti, ai tropici si producevano solo una manciata di prodotti, che inevitabilmente portavano alla schiavitù della monocultura: canna da zucchero, caffè, cacao, mais. Il resto si importava dai paesi più ricchi.

Fino a scoprire che con la tecnologia adatta e l'abbondanza di sole e piogge per dodici mesi l'anno a diventare scarsamente produttivi sarebbero finiti i nostri campi con le canoniche quattro stagioni.

«Nel caso della soia, il più clamoroso, siamo passati da raccolti di 200-300 chili per ettaro di quando si coltivava solo al sud, cioè nel clima più simile all’Europa, agli attuali 3.500 chili di media nazionale. Oltre dieci volte di più», spiega Nepomuceno.

Risultato ottenuto spostando le colture verso l'equatore, nel cosiddetto cerrado, la savana brasiliana. La quale savana assomigliava in tutto e per tutto alla foresta amazzonica, prima di essere distrutta per far largo all'agricoltura.

Costruire le colture

Gli interventi decisivi sono avvenuti sul terreno, correggendo il suolo troppo acido, e lasciando che la stessa soia fissi l'azoto al terreno, come fanno tutte le leguminose.

Sulla piantina è stato fatto un miglioramento genetico classico, cioè pre ogm, per adattarla alle diverse ore di luce rispetto alle latitudini temperate, e insegnandole a crescere di più prima della fioritura. Senza questi interventi la pianta a questi climi resterebbe improduttiva. Il risultato oggi sono distese verdi su territori piani sterminati, con fazendas grandi come province italiane e trattoristi che riescono a orientarsi solo con il gps.

Su tutto questo si sono abbattuti nel tempo gli strali degli ambientalisti di ogni parte del mondo, con la soia diventata il grande cattivo della storia. La difesa dell’Embrapa è su tutti i fronti.

«Innanzitutto gli ogm: a vent'anni dalla loro introduzione non c'è la minima traccia di alcuno dei timori sulla salute umana», dice Nepomuceno».

«Nel frattempo evitiamo di lanciare nei campi fertilizzanti chimici e insetticidi per 15 miliardi di dollari l’anno. La produttività tropicale, inoltre, risparmia il 50 per cento del terreno. Oggi le fazendas più moderne ottengono tre raccolti l'anno sullo stesso terreno, oppure due raccolti più un ciclo di erba da allevamento. Nessun paese al mondo tranne il Brasile ha 365 giorni all'anno di copertura vegetale».

Il caso dell’Amazzonia

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Resta il problema dell’Amazzonia, non si può negare che le stesse tecniche che hanno spinto la soia fin nella savana oggi le permettono di crescere anche dopo aver abbattuto e bruciato la foresta umida. «Nessuno brucia o disbosca per questo – si difendono all’Embrapa – lo si fa per il legname pregiato e soprattutto per portarci le mucche. Se poi sui terreni abbandonati o degradati si porta la soia è soltanto positivo per il suolo, che si rigenera con l’azoto».

La difesa è discutibile: è un fatto che da molti anni ormai il ciclo fuoco-bovini-soia sia una costante nella sparizione della foresta. La coltura finale non arriva per un gesto di coscienza ambientale.

La prossima frontiera ora è il grano. Come gli effetti della guerra in Ucraina stanno mostrando, sul cereale più importante per l’alimentazione umana esiste una dipendenza totale dei paesi poveri, quasi tutti tropicali, da quelli a clima freddo.

Recenti esperienze in Brasile, uno dei maggiori importatori, stanno suscitando grande interesse nel resto del mondo. La sua tropicalizzazione è ormai un fatto compiuto, anche se a differenza della soia che si nutre solo di pioggia servono periodi di irrigazione.

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