Il recente faccia a faccia fra il pontefice e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, se non ha aperto la strada a un ipotetico negoziato di pace, ha però favorito un primo chiarimento fra la Santa sede e Kiev.

Ne è riprova la dichiarazione, lo scorso 17 maggio, del segretario di Stato Pietro Parolin al termine del vertice dei capi di stato e di governo del Consiglio d’Europa, a Reykjavík, in Islanda. «Insieme a papa Francesco dovremmo chiedere, insieme all’Ucraina – ha detto il cardinale – come creare la pace: non possiamo accettare passivamente che la guerra di aggressione continui in quel paese. È il popolo ucraino che sta morendo e soffre. È il momento di prendere iniziative per creare una pace giusta in Ucraina e in tutte le cosiddette aree grigie in Europa. Vi garantisco che la Santa sede continuerà a fare la propria parte».

L’Ucraina, dunque, stando alle parole del cardinale, non è considerata più solo una delle due parti in conflitto verso il cui governo va esercitata una eventuale pressione diplomatica, ma ha assunto la veste di partner ineludibile per cercare la pace, senza contare il riferimento chiaro alla «guerra d’aggressione».

La missione di Zuppi

Un cambio di registro che non può passare inosservato, tanto più nel momento in cui si parla di una possibile missione di pace promossa dal papa attraverso due suoi inviati, uno diretto a Mosca e l’altro a Kiev.

Per ora, tuttavia, l’inviato di Francesco per il conflitto è uno solo, il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei. Zuppi, nelle settimane scorse, è intervenuto diverse volte per perorare con forza la causa della pace; lo scorso 8 maggio, per esempio, concludeva così l’omelia per la messa nel santuario mariano di Pompei: «Gridiamo misericordia! Pace! Nei cuori, tra le nazioni. Tutti concorrano al bene, perché la pace è di tutti. Si fermi l’orrore dalla guerra e si cerchi nel dialogo l’unica vittoria della pace».

L’arcivescovo di Bologna, proviene dalle file della Comunità di Sant’Egidio, l’organizzazione fondata da Andrea Riccardi che, fin dall’inizio della guerra in Ucraina ha cercato di mantenere una posizione sul filo dell’equidistanza fra Mosca e Kiev.

Lo stesso Riccardi, di ritorno da una visita in Ucraina dove pure Sant’Egidio è impegnata in attività di solidarietà e sostegno alla popolazione, scriveva lo scorso 14 maggio su Famiglia cristiana: «In genere ho notato però come l’aiuto umanitario non sia sufficiente e sia necessario un nuovo impegno europeo in questo senso. Soprattutto incombe la domanda su quanto durerà la guerra.  Gli ucraini pensano fino alla riconquista delle loro terre, ma sarà mai possibile di fronte alla forza della Russia? Papa Francesco, di ritorno dall’Ungheria, ha parlato di una missione vaticana a Kiev e Mosca per la pace. Credo sia molto importante perché bisogna avviare segni di pace e aprire contatti. Abbiamo bisogno di investire di più sulla diplomazia». 

Infine Francesco, ancora al Regina caeli di ieri, ripeteva: «Non abituiamoci alla guerra, per favore. E continuiamo a stare vicino al martoriato popolo ucraino».

Nel frattempo, insieme alla conferma di Zuppi come inviato del pontefice, arrivava anche la smentita ufficiale da parte dell’altro incaricato ipotizzato dai media: si trattava di monsignor Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le chiese orientali che avrebbe dovuto portare un messaggio di pace del papa a Vladimir Putin.

«Si comunica – chiariva una nota diffusa dal dicastero – che al prefetto nulla consta di quanto affermato a suo riguardo». Resta da dire che, se l’obiettivo principale di Zuppi sarà quello di contribuire «ad allentare le tensioni nel conflitto in Ucraina», come ha riferito la Sala stampa vaticana, il compito appare oltremodo difficile viste le notizie di combattimenti sempre più serrati che arrivano dal fronte.

Relazioni pericolose

D’altro canto, una certa diffidenza del governo ucraino verso il Vaticano ha qualche fondamento. La Santa sede, in questi anni, ha cercato di separarsi da un’immagine pubblica di istituzione universale sì, ma sempre legata all’occidente.

La necessità di aprire cammini nuovi per l’evangelizzazione a oriente, ha contribuito a determinare questa svolta culturale e politica guidata non a caso da un papa latinoamericano. E la Russia (oltre alla Cina), è diventata uno degli interlocutori più rilevanti per il Vaticano nel nuovo disordine mondiale.

Tanto che, nel novembre del 2021, a tre mesi dall’invasione dell’Ucraina, monsignor Paul Galllagher, “ministro degli Esteri” del Vaticano, uno dei più stretti collaboratori del Segretario di stato, andava a Mosca per una visita di alcuni giorni durante i quali s’incontrava con il primo ministro Michail Mišustin , con il ministro degli Affari Esteri Sergej Lavrov e con il presidente del Dipartimento delle relazioni esterne del patriarcato di Mosca, il metropolita Hilarion.

Quest’ultimo, per aver mosso qualche critica alla guerra scatenata dal Cremlino, è stato poi spedito in Ungheria dal patriarca Kirill, ma i primi due sono tuttora in carica (Mišustin fra l’altro andrà in missione Cina nei prossimi giorni).  

In una nota ufficiale diffusa dal ministero degli Esteri russo, relativo alla visita di Gallagher, si leggeva fra le altre cose: «La Russia apprezza gli sforzi della Santa sede volti a sostenere il primato del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni unite, attraverso modalità pacifiche e diplomatiche di risoluzione dei conflitti». Affermazioni sbalorditive lette con il senno di poi. Di certo la Santa sede non ha registrato particolare allarme per la preparazione dell’invasione militare dell’Ucraina, benché in quelle stesse settimane i servizi di intelligence degli Usa avessero lanciato più di un avvertimento in questo senso.

Ambiguità siriane

D’altro canto, rispetto alle scelte militari della politica estera di Mosca, da parte vaticana c’è sempre stata una certa silenziosa tolleranza, quasi a descrivere un doppio standard rispetto alle critiche puntali rivolte invece sul fronte opposto agli Stati Uniti e all’Europa.

Si pensi alla lunga e sanguinosa guerra che ha sconvolto un paese come la Siria a partire dal 2011: gli appelli e gli interventi del papa per fermare il conflitto certo non sono mancati, ma quasi mai si è sentita una parola di condanna della Santa sede verso il sostegno militare dato da Mosca al regime dittatoriale di Bashar al Assad che ha avuto il suo culmine nel bombardamento di Aleppo del 2016, quando l’aviazione russa ha colpito indiscriminatamente ospedali e popolazione civile.

Se a giustificare violenze ed efferatezze di ogni tipo da parte delle milizie di Assad sostenute da Teheran e dalla Russia c’era lo spauracchio reale dell’Isis, le principali vittime di quel lungo e tragico conflitto sono state appunto le popolazioni civili. Tuttavia nessuna missione di pace è partita dal Vaticano alla volta delle varie capitali coinvolte, comprese quelle occidentali. Unica eccezione un intervento inziale del papa per fermare l’intervento aereo annunciato dal presidente Usa Barack Obama nel 2013, e mai realizzatosi, dopo che il regime di Damasco ha fatto ricorso all’uso di armi chimiche.

Il compromesso cinese

Il discorso del dialogo aperto dal Vaticano con Pechino è invece più complesso. Da una parte, infatti, la Santa sede, attraverso l’accordo per la nomina congiunta dei vescovi in Cina, ha ottenuto di fatto una regolarizzazione della presenza cattolica nel paese; dall’altra permangono rapporti delicati con un governo nominalmente comunista e comunque a tutti gli effetti imperiale (da Hong Kong al Myanmar dove una giunta militare senza scrupoli – sostenuta da Pechino – governa con la minaccia e le uccisioni un paese abbandonato dalla comunità internazionale).

E va detto che Francesco, mentre ha taciuto sulle violazioni dei diritti umani e civili a Hong Kong per evitare di cancellare i faticosi passi avanti compiuti dalla chiesa in Cina, ha denunciato più volte le violenze cui è sottoposta la popolazione civile in Myanmar, a cominciare dalla minoranza musulmana dei Rohingya. 

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