Quando Raphael Lemkin, ebreo-polacco esule negli Stati Uniti per sfuggire all’Olocausto, cercava un termine per descrivere il «crimine senza nome», come lo aveva definitivo Churchill in un incontro con Roosevelt nell’estate del 1941, mai avrebbe immaginato che la parola «genocidio», da lui coniata, sarebbe stata un giorno adoperata come accusa contro Israele.

Basterebbe questo per sottolineare la portata storica dell’ordinanza emessa venerdì dalla Corte internazionale di giustizia. Nonostante Israele abbia giudicato l’accusa non solo «incoerente», ma «oscena», la Corte ha ritenuto «plausibile» il ricorso. Essa ha pertanto accolto – ancorché solo parzialmente – le richieste di misure cautelari avanzate dal Sudafrica, senza tuttavia esprimersi sul merito della vicenda, che sarà poi oggetto di un autonomo e più lungo accertamento. Ma procediamo con ordine.

La convenzione

La Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, approvata nel 1948 ed entrata in vigore tre anni più tardi, contiene una clausola ai sensi della quale ogni stato parte ha il potere di invocarne la violazione davanti alla più autorevole giurisdizione internazionale: la Corte internazionale di giustizia.

Dal momento che tanto Israele quanto il Sudafrica hanno ratificato la Convenzione, rispettivamente nel 1950 e nel 1998, essi possono, come tutti gli altri stati parte (in totale: 153), agire in giudizio in difesa della norme in essa contenute. A ben vedere si tratta della stessa giustificazione, o escamotage, che ha permesso all’Ucraina di promuovere un’azione legale contro la Federazione russa nel 2022.

Tuttavia, in quest’ultimo caso l’Ucraina accusava la Russia di avere incautamente adoperato l’espressione «genocidio» (della popolazione russofona) per accreditare la legalità dell’operazione militare speciale tutt’oggi in corso. Diversamente, nella situazione di specie è uno stato terzo – il Sudafrica – ad agire in veste di attore, a dimostrazione di come alcuni valori siano oggi percepiti come universali.

Cos’è il genocidio

Ciò premesso, la Convenzione qualifica il genocidio come una serie di condotte commesse con «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale». Senza attardarsi in tecnicismi, la fattispecie è articolata attorno a tre elementi.

Primo: una condotta materiale, che integra, tra l’altro, le «uccisioni», le «lesioni gravi all’integrità fisica o mentale», o il «sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale» (come, ad esempio, privando l’accesso al cibo, all’acqua o alle medicine).

Secondo: l’esistenza di un «gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso» (come nel caso del popolo palestinese, del quale la popolazione della Striscia di Gaza rappresenta, secondo la Corte, una parte «sostanziale»); e terzo, nonché il più difficile da provare: il cosiddetto dolus specialis, ovvero la volontà di compiere quella determinata condotta «al fine di distruggere, in tutto o in parte», il gruppo considerato «in quanto tale».

In sintesi, come ricordato nell’ordinanza: il «genocidio è la negazione del diritto all’esistenza di interi gruppi umani, così come l’omicidio è la negazione del diritto alla vita dei singoli». A tal fine, la Convenzione estende la portata del divieto dal semplice genocidio, alla «cospirazione», all’«incitamento diretto e pubblico», sino al «tentativo» e alla «complicità».

Un luogo di morte

Sebbene molti di questi aspetti sono presi in considerazione nel provvedimento infine adottato, occorre ribadire che esso ha per oggetto le sole «misure cautelari», che un po’ come i decreti di urgenza richiesti davanti ai giudici interni, sono adottabili al fine di evitare un pregiudizio irreparabile e urgente.

Secondo la Corte, a fronte di una media di 247 palestinesi uccisi, 629 feriti e 3.900 case danneggiate «al giorno», la «catastrofica situazione umanitaria a Gaza» può deteriorarsi «in ogni momento» e il pregiudizio è, prima facie, plausibile.

La lettura del dispositivo su questo punto è toccante, e persino l’algida presidente statunitense Joan Donoghue sembra tradire un poco di emozione affrontando il tema della protezione dei civili e, soprattutto, dei bambini. Richiamando organi e agenzie internazionali, si ricorda come «negli ultimi 100 giorni i bombardamenti nella Striscia di Gaza hanno causato il dislocamento di massa di una popolazione in continuo movimento, sradicata e costretta ad andarsene da un giorno all’altro, per poi trasferirsi in luoghi altrettanto insicuri».

Per tutti Gaza è diventato «un luogo di morte e disperazione». Ma per i bambini, in particolare, la situazione è «heartbreking [straziante]». Sono migliaia quelli «uccisi, mutilati e rimasti orfani. Centinaia di migliaia sono privati dell’istruzione. Il futuro di un’intera generazione è in pericolo, con conseguenze di vasta portata e di lunga durata».

Le differenze con l’Ucraina

Alla luce di tali considerazioni, è opinione della Corte che alcune delle richieste avanzate dal Sudafrica sono legittime. Ma è su quali misure approvare nello specifico che si è consumata – a sapere leggere tra le righe – la partita più delicata.

Il Sudafrica puntava alto e nel ricorso depositato il 29 dicembre 2023 richiedeva, sulla scorta di una terribile contabilità di morti (21.110 palestinesi uccisi, di cui 7629 bambini), ben nove misure cautelari, tra le quali l’immediato cessate il fuoco. Si tratta, come ricordato, della medesima misura ottenuta dall’Ucraina nei confronti della Federazione Russa. Ma diversamente da quest’ultimo caso, la Corte non ha ritenuto di spingersi sino a questo punto, riconoscendo in tal modo (ancorché implicitamente) il diritto di Israele all’autodifesa.

La circostanza, considerata la radicale polarizzazione che da sempre accompagna l’interpretazione del conflitto israelo-palestinese, ha spinto alcuni commentatori a stigmatizzare la portata della pronuncia alla stregua dell’argomento dei due pesi e delle due misure.

Ma a ben vedere si tratta di un’obiezione priva di fondamento: nel caso dell’aggressione della Federazione russa il richiamo al «genocidio» della popolazione russofona in Ucraina era stato impropriamente evocato come giustificazione dell’intervento militare, e quindi contestarne l’appropriatezza significava delegittimare l’aggressione dell’Ucraina.

In questo caso, invece, come la stessa Corte si premura di sottolineare, il contesto è quello dei tragici attacchi del 7 ottobre, in cui Hamas e altri gruppi armati hanno ucciso più di 1.200 persone, ferendone migliaia e rapendo circa 240 persone, molte delle quali ancora in ostaggio. Per questa ragione, «la Corte ritiene necessario sottolineare che tutte le parti coinvolte nel conflitto nella Striscia di Gaza sono vincolate dal diritto internazionale umanitario», e dichiarandosi «gravemente preoccupata per la sorte degli ostaggi rapiti durante l’attacco del 7 ottobre 2023» ne richiede «il rilascio immediato e incondizionato».

La fine della storia

Alla luce di questo ampio ragionamento, la Corte, a grande maggioranza (15 giudici contro 2: contrari il giudice israeliano e quello ugandese), condanna Israele a dare ampia esecuzione agli obblighi della Convenzione, a prevenire la distruzione delle prove, e a sottomettere un resoconto delle misure intraprese entro un mese. Addirittura, con il voto favorevole di 16 giudici contro 1 (quindi con il voto favorevole persino del giudice israeliano) obbliga Israele a garantire l’immediata assistenza umanitaria nella Striscia, e a prevenire ogni incitazione diretta e pubblica a commettere genocidio.

Da ultimo, non si può tralasciare la portata simbolica della pronuncia, che su impulso di uno stato considerato per decenni un pària della comunità internazionale a causa del regime di apartheid, ha richiesto la condanna dello stato nato sulle ceneri dell’Olocausto per violazione delle norme in materia di genocidio.

Forse è la fine di ogni discorso sulla fine della storia, ma d’altra parte quando Theodor Adorno osservò, nel 1949, come scrivere una poesia dopo Auschwitz fosse «un atto di barbarie» alcuni anni dopo Peter Szondi capovolse l’argomento: «se non è più possibile una poesia dopo Auschwitz, allora sarà possibile a causa di Auschwitz».

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