Nel 2017 è nato lo schema generale del Gdpr sulla protezione dei “dati” e a seguire fino al 2022 sono arrivate le norme su servizi, ruoli, commercio, intelligenza artificiale.

L’Europa ha così completato l’architettura dei cinque atti che regolano il mercato digitale nel territorio dell’Unione.

Sembrava, tre lustri orsono, la classica “vasta impresa” talmente ambiziosa da sembrare velleitaria, e invece le norme hanno superato il vaglio di Commissione, governi nazionali e parlamento di Strasburgo.

La materia plasma l’avvenire (redditi, welfare, occupazione) di tutti gli elettori dell’Unione e ha un peso geopolitico non minore dell’autonomia energetica pulita e di un’industria delle armi che non dipenda da possibili rivali.

Mano a mano che i risultati arriveranno, l’opinione pubblica, finora sensibile tutt’al più al tema della “privacy”, comprenderà che i confini della questione sono assai più ampi.  

Con l’occasione va notato, proprio mentre a Bruxelles si sequestrano le mazzette qatariote pronte a essere spartite, che riguardo alle norme sul digitale non mancavano interessi ricchi, influenti e popolari.

Molti, a partire dai colossi tecnologici americani, preferiscono ci si perda nelle chiacchiere su “riservatezza”, “diritto all’oblio” e “moderazione” mentre detestano e combattono le norme che intaccano i fondamenti del loro pervasivo monopolio.

E tuttavia, incredibilmente, la classe dirigente dell’Unione ha retto all’urto. Segno che il calcio è (purtroppo) materia lasciata ai faccendieri, mentre col digitale non si scherza.

L’utente sovrano

La pietra angolare dell’architettura normativa della Ue è il principio, più volte ribadito nelle norme, che il cittadino è l’unico padrone dei dati che su di lui vengono raccolti.

Il potenziale della norma è oggi offuscato dal fastidio degli “accetto” e delle tiritere dei call center che formalmente ossequiano la legge, senza che il singolo individuo abbia la capacità, la voglia o il tempo di fornire e articolare consensi meditati.

Ma la musica sarà diversa se e quando, a partire dal 2023, prenderanno corpo – com’è reso possibile dalle nuove norme – le imprese “intermediarie”, che in “cassette di sicurezza” – memorie digitali di cui noi, e noi soltanto come singoli, possederemo le chiavi – custodiranno qualsiasi dato ci riguardi, sia che provenga dalla rete sia che nasca al di fuori.

Si tratta dei dati che si generano quando vaghiamo negli Store di Google e Apple, scaricando un’applicazione, spedendo  una mail, ci registriamo a un social, entriamo in un sito di notizie, seguiamo lo sport, l’arte, la politica, compiamo una ricerca o ci infiliamo in una piattaforma vendi-acquista.

Ma anche i dati delle carte di fedeltà del supermarket, del tesseramento a un cine club, del car sharing, del geo posizionamento del cellulare in periferia oppure in centro, presso il coniuge o l’amante.

Tutte le fonti, insomma, di dati generati da noi stessi che raccontano le pieghe della psiche, il livello d’istruzione, i soldi che spendiamo, lo stato di salute ed altro ancora.

Il tutto, finora, a beneficio esclusivo di cinque colossi americani e di polizie, assicurazioni, agenzie turistiche e così via.

Mentre nel nuovo assetto noi, avendo in mano il rubinetto, saremo in grado di chiuderlo o aprirlo e di trarne perfino dei quattrini. Ma, più in generale, la nostra personale sovranità sui dati è una leva strategica per lo sviluppo del nostro paese nell’Unione.

Lo sblocco della concorrenza

Oggi l’Unione europea è un gigante del consumo, ma imprenditorialmente imbelle. Non che manchino in Italia, come in ogni altro componente della Ue, le idee di applicazioni e servizi capaci di conquistare pubblico e clienti, ma restano costantemente nello stato dell’embrione perché ogni affare digitale è una barca che per navigare deve avere un oceano di dati da solcare.

I regolamenti dell’Unione sbloccano, per l’appunto, questa strozzatura e rendendo i dati portabili e disponibili, previo accordo con ciascuno, da parte di chiunque.

Dunque livellano – almeno sotto questo aspetto strutturale – il piano della competizione fra aziende incombenti e nuovi entranti.

Così l’imprenditorialità della Ue può entrare in campo e iniziare la lunga marcia volta a recuperare lo svantaggio rispetto a Usa e Cina. Col risultato che in prospettiva la massa di fatturato invero enorme che oggi è risucchiata da soggetti “fuori Unione” verrebbe trattenuta a vantaggio di business, mestieri, occupazione.

Oltre che dello stesso portafoglio dell’Utente, sebbene in una misura che al momento, senza le controprove sul campo, sarebbe azzardo dire.  

La sfida dell’enforcement

Il tutto a patto, ovviamente, che dopo tanto sforzo di regolazione, non venga meno (sarà questa una seria cartina di tornasole del governo) la tenacia dell’enforcement, ovvero della messa in pratica di attività ispettive e norme di complemento capaci di ovviare alle prevedibili inerzie ed elusioni degli interessi forti e dei mestieri finti, dei moralisti da dozzina e degli pseudo guru ai quali l’Internet nella sua fase di Far West ha regalato una baracca.

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