Sono stato attaccato fisicamente durante tutta la mia vita politica. Sono stato picchiato in strada quando ero parlamentare. Sono stato insultato e minacciato quando ho ambito alla presidenza della repubblica», dice Robert Biedroń, primo candidato presidenziale dichiaratamente gay in Polonia. Con la sua forza politica di sinistra, Primavera, voleva scalfire almeno un po’ il dominio del partito populista di destra Pis (Diritto e Giustizia). Invece Andrej Duda, proposto dal Pis, a luglio si è preso il suo secondo mandato «con una campagna omofoba». Ora «la situazione è sempre più preoccupante».

La notte della svolta

Il punto di non ritorno, in cui diventa evidente anche al resto d’Europa che sulle derive polacche non si può più tergiversare, è il 7 agosto: nelle strade della capitale si materializza l’attacco repressivo dello stato contro la comunità lgbt e pure contro chi la difende o si trova lì vicino. «Ho visto coi miei occhi la polizia acciuffare un passante che non stava facendo nulla di male e arrestarlo», dice Magda Biejat, parlamentare del partito di sinistra Lewica. «L’evento del 7 si innesta su due episodi». A metà luglio, l’attivista Małgorzata Szutowicz, nota come Margot, buca le gomme di un camioncino pro life che con la complicità delle istituzioni diffonde slogan omofobi («i gay sono pedofili»). Viene arrestata e rilasciata. Poi, a inizio agosto, la comunità lgbt mette bandiere arcobaleno sui monumenti di Varsavia e c’è una seconda ondata di arresti, più pesante della prima. Stavolta Margot non è la sola a essere arrestata, e le si profila una detenzione di due mesi in attesa di processo. Il motivo? «Offesa ai sentimenti religiosi e ai monumenti». Arriviamo al 7 agosto: la comunità lgbt si raduna nella capitale per esprimere solidarietà a Margot. «Il clima era pacifico, la gente cantava. La polizia ha aspettato che fossimo in tanti e poi ha caricato in modo brutale Margot sull’auto dando il via all’escalation», dice Biejat. Qualcuno ha provato a fermare la macchina dei poliziotti, a quel punto le forze dell’ordine «hanno arrestato in massa cinquanta persone, perlopiù senza ragione». Finisce agli arresti anche un italiano, poi liberato su intervento della Farnesina. «Queste persone sono state spostate da una stazione di polizia all’altra, le famiglie le cercavano invano. Io da parlamentare ho passato la notte a rintracciarle, a chiedere per loro un avvocato. So di modi brutali e molestie da parte della polizia. A una trans ha detto: “Vediamo cos’hai nei pantaloni”». Quella notte «ha seminato paura», dice Magdalena Dropek, attivista lgbt di Cracovia. «Ora sappiamo che basta un arcobaleno per rischiare un assalto

La deriva estremista

Dropek raccoglie le testimonianze di aggressioni sui social. «Dalle presidenziali, da agosto soprattutto, aumentano esponenzialmente». «Il Pis crea un clima di liceità per questi attacchi», dice Biedroń: «Duda disumanizza chi è lgbt, afferma che “non siamo persone” come si diceva degli ebrei a ridosso della guerra. Anche la chiesa cattolica polacca ha un ruolo». L’episcopato a fine agosto ha invocato la creazione di «cliniche per aiutarle le persone lgbt a tornare al naturale orientamento sessuale» e ha accusato gli attivisti di voler «indurre nella società comportamenti moralmente reprensibili». «Ideologia del male»: sono parole di Giovanni Paolo II citate da Duda per attaccare la comunità lgbt. «Credo in Dio e tutto questo mi sconvolge», dice l’attivista Jakub Kwiecinski. Il giorno del suo compleanno è arrivato fino in Vaticano per portare la bandiera arcobaleno e una richiesta di aiuto a papa Francesco. Con lui, il marito Dawid Mycek. «A Roma ci siamo sentiti liberi. A Varsavia un’amica è stata picchiata in un McDonald’s per la sua maglia arcobaleno». Sempre a Varsavia, la formazione di estrema destra Soldati di Cristo ha preso l’abitudine di mettersi davanti alla basilica e impedire l’ingresso a chi ha «l’aspetto da frocio». Sul suo sito, il gruppo mette in vendita rosari d’acciaio «ottimi come armi». Durante la parata organizzata da formazioni neofasciste in occasione del centenario della battaglia di Varsavia, i militanti hanno esibito striscioni anti lgbt sotto gli occhi incuranti della polizia. Tra le più attive promotrici della crociata contro i gay ci sono le associazioni pro life come Ordo Iuris, che fa parte del network del Congresso mondiale delle famiglie (lo stesso che si riunì a Verona nel marzo 2019 scatenando le proteste femministe). Quel network è presidiato e finanziato anche da oligarchi vicini a Vladimir Putin. Il ricercatore e attivista lgbt Rémy Bonny studia le connessioni tra le organizzazioni pro life polacche e questi ambienti russi. Per dirne una, «Ordo Iuris ha supportato la legge anti lgbt russa del 2013». L’organizzazione pro life influenza il governo polacco, tanto che nel 2016, quando il Pis provò a inasprire il divieto di aborto, il leader del partito, Jarosław Kaczyński, ammise che a ispirarlo era stata Ordo Iuris. «Il Pis sta radicalizzando sempre più la sua posizione perché spera di attirare un certo elettorato», dice Carla Tonini, professoressa di storia dell’Europa orientale dell’università di Bologna. «Il paradosso è che, mentre insegue le posizioni più estreme, perde il consenso dell’elettorato cattolico più moderato». Che infatti alle presidenziali ha premiato con un 13 percento il debutto dell’indipendente Szymon Hołownia, cattolico moderato.

Le zone “Lgbt free”

La storia delle città “lgbt free” mostra bene gli sviluppi nella maggioranza di governo, oltre che nei rapporti con l’Europa. Le “lgbt free zones”, aree no lgbt, sono zone proclamatesi «libere dall’ideologia lgbt». La tendenza è cominciata a inizio 2019 nel sudest del paese. In queste zone le amministrazioni locali si impegnano a non sostenere iniziative e ong che lavorano per la tolleranza e per i pari diritti. «In teoria mettono al bando “l’ideologia”, in pratica è come se mettessero al bando le persone», dice Magdalena Dropek. «La gente è a noi che dice che non siamo graditi. E si sente legittimata dalle istituzioni». Questo non capita solo nei villaggi rurali, anzi arriva a lambire le grandi città. Persino a Cracovia, capitale culturale e sede universitaria, dove Dropek vive, «la provincia si è dichiarata free». Gli attivisti appuntano su una “mappa dell’odio” queste zone: ormai si estendono a più di un terzo del paese. Quando, quest’estate, l’Ue ha annunciato che non avrebbe più elargito finanziamenti alle città “lgbt free”, per tutta risposta il ministro della Giustizia polacco ha promesso loro un aiuto finanziario persino maggiore. Tuchow non ha avuto i 25mila euro che aspettava dai programmi europei, ma ne riceverà ora 60mila dal ministero. «Voglio supportare le amministrazioni che difendono le famiglie ben funzionanti e combattono l’ideologia lgbt», ha dichiarato il ministro Zbigniew Ziobro. È considerato il “polarizzatore” della destra polacca: ha posizioni dure contro gli lgbt e vuol far uscire il paese dalla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. La sua formazione politica, l’ultranazionalista Polonia Unita, è alleata del Pis ma approfitta della crescente debolezza di Kaczynsky per litigarsi più spazi di manovra. Il Pis a sua volta rincorre gli estremi, come dimostrano la campagna omofoba di Duda e gli ultimi eventi. Intanto la coalizione di governo mostra tutte le sue tensioni interne: la scorsa settimana si è spaccata su un provvedimento che riguardava gli animali e il business di pellicce e macellazioni rituali.

L’alternativa

E i liberali cosa fanno? Rafał Trzaskowski, sindaco di Varsavia, fa parte del partito di centrodestra liberale ed europeista Piattaforma civica e per poco non è riuscito a sconfiggere Duda al ballottaggio. Sostiene le unioni civili ma non i matrimoni gay, e sui fatti di agosto, avvenuti nella sua città, non si sbilancia né risponde. Il suo compagno di partito Jacek Jaśkowiak, primo cittadino di Poznań, dice: «Molti esponenti di Piattaforma hanno visioni centriste. Io sono stato il primo sindaco polacco in assoluto a partecipare alla marcia per l’uguaglianza lgbt. Il mio caro amico Paweł Adamowicz, sindaco di Danzica ucciso nel 2019, predicava apertura e tolleranza, e pure ci ho messo tre anni per convincerlo a venire alla marcia. Ha avuto bisogno di tempo: era un conservatore. Ho fatto appello al suo senso di solidarietà verso gli esclusi. Sono certo che si indignerebbe per ciò che accade oggi». Il racconto di Jaśkowiak fa capire quanto sia impegnativo promuovere i diritti lgbt in un paese cattolico conservatore come la Polonia. Qui solo il 47 percento ritiene che l’omosessualità vada accettata. Lo mostra la recente ricerca del Pew Research Center: in Europa si avvicinano a questi livelli Ungheria (49), Grecia (48) e Slovacchia (44), lontane dalle più aperte Svezia (94), Olanda (92) e Spagna (89). Da tempo l’Europarlamento denuncia l’intolleranza del governo polacco contro la comunità lgbt. Brando Benifei, capo delegazione del Pd al parlamento europeo, ha subissato di interrogazioni la Commissione, che ora risponde promettendo «una strategia per la parità di genere Lgbt+ da adottare in autunno». La presidente Ursula von der Leyen stigmatizza le “zone lgbt free”, ma c’è un nodo che non ha sciolto: il rispetto dello stato di diritto. Varsavia è nel mirino dal 2017 per averlo violato, ma con gli iter attuali, l’alleanza tattica tra governi blocca tutto. Giovedì il parlamento Ue ha approvato un rapporto in cui accusa la Polonia di grave e ripetuta violazione della rule of law. L’omofobia è solo uno dei motivi: ci sono indipendenza dei giudici, pluralismo dei media e altro. Un’ampia maggioranza ha approvato il report. Hanno votato contro Lega e Fratelli d’Italia (e i rispettivi gruppi). L’esito della storia si vedrà a breve: Europarlamento, Consiglio e Commissione chiuderanno i negoziati sul bilancio e capiremo se l’Ue riuscirà a vincolare i fondi alla rule of law. Ma, dice la commissaria Vera Jourova, «il nesso varrà per aspetti legati alle finanze, come la corruzione». I diritti lgbt rimangono fuori.

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