L’era dell’ordine mondiale unipolare è finita (…)nonostante tutti i tentativi di conservarlo con ogni mezzo. Il cambiamento è un processo naturale della storia poiché è difficile riconciliare la diversità delle civiltà e la ricchezza delle culture del pianeta con stereotipi politici ed economici (…) imposti da un solo centro in modo rozzo e senza compromessi» (Putin, 2022).

Le parole di Vladimir Putin al Forum economico internazionale di San Pietroburgo chiudono idealmente quel cerchio aperto con la sua prima denuncia pubblica nei confronti dell’ordine emerso dalle ceneri della Guerra fredda alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco nel 2007.

Fino al 24 febbraio 2022, infatti, Mosca sembrava perseguire il mutamento internazionale attraverso sfide attuate con “moderazione”, ovvero con un ricorso alla violenza limitato. Gli eventi in Ucraina, invece, ne segnano il pericoloso slittamento verso una postura “rivoluzionaria”, che trova nella guerra su vasta scala un’opzione praticabile.

Great powerness

Al netto delle dichiarazioni di Putin e delle altre figure chiave del Cremlino, tuttavia, gli obiettivi della Federazione Russa restano comunque circoscritti. La stessa invasione dell’Ucraina, d’altronde, non ruota intorno a un reale tentativo di cambiamento “sistemico”, ma alla questione che più di ogni altra ne ha segnato la politica estera nell’ultimo trentennio: il recupero dello status di grande potenza.

Il crollo dell’Urss – definito, come noto, da Putin nel 2005 come «la più grande catastrofe geopolitica del xx secolo» – non solo precipitò la Russia dalla condizione di superpotenza a quella di paese in ginocchio, alle prese con bancarotta, povertà, corruzione e rivolte interne, ma ne determinò anche la rappresentazione di potenza sconfitta da parte dei vincitori della Guerra fredda.

Nella letteratura di relazioni internazionali un indicatore ricorrente del conseguimento della great powerness è il raggiungimento dell’egemonia all’interno della propria regione di appartenenza, nonché la capacità di avere una proiezione di potenza nei cosiddetti “mari caldi”.

La Federazione Russa ha così operato per ripristinare una sfera d’influenza sui territori un tempo appartenuti all’Impero zarista e poi a quello sovietico, di sovente indicati con l’etichetta di “estero vicino”, e dai cui governi esige l’allineamento internazionale sulle questioni strategiche.

Contemporaneamente si è distinta per il rinnovato attivismo nel bacino del Mediterraneo, dove è intervenuta boots on the ground in Siria e attraverso il Gruppo Wagner in Libia. Se nella partita ucraina il primo obiettivo è all’origine della pretesa di Mosca nei confronti del governo di Kiev di un impegno pubblico a non richiedere l’adesione alla Nato, il rafforzamento della sua posizione nei mari caldi spiega la ricerca del con- trollo delle terre ricomprese tra il Donbass e la Crimea.

La svolta

La svolta della Russia, quindi, interpreta le politiche realizzate da Mosca nell’ultimo ventennio alla luce di un disegno strategico dagli obiettivi comunque limitati, come implicitamente confessato dallo stesso Putin quando ha paragonato le sue scelte in Ucraina con la conquista di Pietro il Grande dell’area di San Pietroburgo ai danni degli svedesi. In entrambi i casi, infatti, i due leader russi avrebbero «semplicemente restituito alla Russia ciò che è suo».

Nonostante appaia sempre più spesso in rotta di collisione con l’ordine internazionale a guida americana sia su questioni materiali che sui principi e i valori “liberali” che ne sono alla base, d’altronde, Mosca non appare in grado di perseguire realisticamente un progetto di cambiamento sistemico per almeno tre ordini di ragioni.

La prima è la mancanza delle capacità necessarie a ingaggiare una competizione assoluta con le potenze “revisioniste”. Pur continuando a essere la principale minaccia nucleare per gli Stati Uniti e mantenendo le più ampie forze convenzionali nazionali sul continente europeo, la Federazione Russa soffre di un’economia stagnante, appiattita sul settore energetico e in buona parte controllata dallo Stato, di un settore pubblico affetto endemicamente da inefficienza e corruzione, di una scarsa capacità di mantenere e attirare talenti e di una popolazione declinante che vive sul territorio più ampio del pianeta.

La seconda ragione è la scarsa capacità attrattiva del paese. Non tanto per quella che ha mostrato negli anni Novanta, quando scontava le conseguenze materiali e immateriali della sconfitta, quanto per quella che non è riuscita a sviluppare nell’ultimo ventennio. Sono pochissimi gli Stati che potendo realmente scegliere tra un’alleanza o una partnership con le potenze occidentali e la Russia hanno optato per la seconda.

E anche la formula politica del Russkij Mir non ha prodotto sempre gli effetti attesi in termini di influenza nella sfera politica interna dei paesi postsovietici, come testimoniato dalla strenua resistenza alle forze di invasione russe dimostrata dalle popolazioni russe e russofone del Donbass, Mariupol o Kharkiv.

Infine, sebbene l’insoddisfazione della Federazione Russa nei confronti dell’ordine a guida americana e alcune politiche che da essa derivano risultino spesso assimilabili a quelle della Repubblica Popolare Cinese, nel medio-lungo termine gli interessi delle due potenze sembrano confliggere su alcuni dossier scottanti – dalla Belt and Road Initiative alla riduzione degli armamenti, passando per le tempistiche e le modalità della sfida agli stati “conservatori” – tanto da far parlare di una condivisione di obiettivi tattici tra le due potenze a fronte di una sostanziale divergenza sugli obiettivi strategici.

La strategia americana

Della postura “sfidante” assunta dalla Federazione Russa – e dei suoi limiti – si può trovare conferma nei principali documenti strategici americani ed europei dell’ultimo decennio. Già nella National Security Strategy americana del 2010 l’amministrazione Obama scriveva che «la Russia era riemersa nell’arena internazionale come una voce forte», mentre nella National Security Strategy del 2017 l’amministrazione Trump la definiva esplicitamente come una «potenza revisionista» che «contesta» l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti d’America.

L’amministrazione Biden, in linea di continuità con il passato, ha parlato della Russia come di un «competitor strategico» che «rimane determinato a rafforzare la sua influenza globale e svolgere un ruolo dirompente ruolo sulla scena mondiale».

Toni simili trovano eco sia nella European Union Global Strategy, dove il rapporto con la Russia viene definito una «sfida strategica» che mette in discussione la pace e la stabilità in Europa, che nell’ultimo Concetto strategico nato, in cui il paese è stato definito come «la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza degli Alleati nonché alla pace e alla stabilità nell’area euro-atlantica».

La pubblicazione di questi documenti strategici ha contribuito a fornire nuovi elementi al dibattito sul ruolo della Russia sullo scacchiere globale che – già di per sé – era diventato molto vivace al volgere del millennio. Un po’ per le qualità personali di Putin, un po’ per la regressione autoritaria sperimentata dalla Federazione Russa nell’ultimo quindicennio.

Ma, soprattutto, per il “peso” internazionale che Mosca ha progressivamente recuperato nel XXI secolo.

Studiare le contraddizioni

In ambito politologico i più importanti lavori sul tema sono stati prodotti nel mondo anglosassone. Sia per l’elevato grado di attenzione che tradizionalmente la disciplina delle relazioni internazionali tributa al le grandi potenze, sia per l’interesse che inevitabilmente la Russia suscita all’interno di una comunità di studiosi e professionisti delle relazioni internazionali che guarda al mondo dalla prospettiva delle potenze garanti dello status quo globale.

La proiezione esterna di Mosca nel post Guerra fredda, invece, non è stata più così centrale tra gli studiosi italiani. Tale risultato è probabilmente da addebitarsi sia alla convinzione che le minacce legate al confronto tra grandi potenze fosse un ricordo del passato per il nostro paese, che al venir meno dell’interesse destato dall’esperienza del comunismo in Italia.

Nonostante alcune eccezioni nel campo degli studi politologici, infatti, sono stati principalmente gli storici delle relazioni internazionali a essersi cimentati con l’argomento.

Più rari, invece, risultano i tentativi di investigare coralmente l’approccio che i maggiori attori globali o regionali tengono nei confronti della Russia, di cui nessuno – per quanto ci è dato di sapere – in lingua italiana. Eppure, questo modo di guardare al paese sembra particolarmente adeguato a comprendere meglio le contraddizioni – rese stridenti dall’aggressione all’Ucraina – e gli elementi di realtà della rappresentazione che il Cremlino tradizionalmente fornisce dei suoi rapporti con il resto del mondo – ovvero quella di una nazione sostanzialmente sotto assedio.

Mosca, infatti, ha storicamente presentato la sua condizione nell’ambiente internazionale come più precaria rispetto a quella di altri Stati, al punto da sviluppare una vera e propria ossessione per l’accerchiamento che è stata alternativamente attribuita a ragioni geopolitiche e/o culturali. La percezione di vulnerabilità legata all’assenza di confini naturali e il sospetto che anche i piccoli Stati confinanti agiscano sostanzialmente come una proxy dei grandi nemici del paese hanno alimentato un senso di insicurezza trasversale alla classe dirigente e al popolo russi e giustificato un ricorrente accentramento dei poteri presentato come funzionale al ripristino della sicurezza perduta.

Questa interpretazione della realtà è stata ulteriormente esasperata con la fine della Guerra fredda, anche per l’indisponibilità talvolta dimostrata da americani ed europei a comprendere il senso di umiliazione sperimentato dai russi negli anni Novanta.
 

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