In una località a pochi chilometri ad est della Striscia di Gaza esiste una specie di museo dell’orrore. Qui le autorità israeliane hanno portato la maggior parte delle auto delle vittime dell’assalto di Hamas ai kibbutz e al rave del 7 ottobre scorso.

Alcuni veicoli sono completamente carbonizzati, delle carcasse per lo più ammassate ai margini di questo cimitero di auto. Le altre sono disposte in numerose file parallele. Molte hanno i vetri infranti dai proiettili e la carrozzeria bucherellata. Mancano a volte frammenti insanguinati della tappezzeria o delle fodere dei sedili.

Questi sono stati recuperati dall’organizzazione umanitaria israeliana Zaka, che si occupa di raccogliere resti umani di qualsiasi tipo, nei casi di vittime di guerre, per dare alle spoglie degna sepoltura secondo le tradizioni ebraiche.

Ci accompagna Shachar, un riservista trentenne, richiamato dall’esercito israeliano (Idf) il 7 ottobre stesso. «Fa molta, molta paura essere là dentro, nella Striscia. I terroristi di Hamas escono improvvisamente dai tunnel e sparano, cercando di sorprenderti alle spalle», ci racconta.

Alle spalle di Shachar oggi ci sono invece decine di moto accatastate e una jeep, usate dai miliziani per entrare in Israele. Dice che ai soldati è stato dato l’ordine di colpire solo i miliziani di Hamas e di evitare ogni danno alla popolazione di Gaza, ma che questa è una guerra e quindi i civili vengono inevitabilmente coinvolti.

«Stiamo cercando di proteggere Israele, ma questa è solo la prima linea di combattimento. Io voglio proteggere i nostri valori, che sono anche i vostri» continua il soldato. «Se uno appoggia veramente i palestinesi, deve appoggiare anche noi, perché così finalmente potranno vivere liberi».

Frasi di questo tipo vengono ripetute come dei mantra in Israele, da politici, parenti delle vittime, volontari di Ong. Sembrano chiedere tutti: «Come fate a non capire che lo stiamo facendo anche per voi? Che stiamo difendendo l’Occidente dalla barbarie?».

Ci spostiamo poi a Kfar Azza, uno dei kibbutz colpiti più duramente da Hamas. Insieme a Domani, ci sono altri sette giornalisti europei, che parteciperanno a una serie di incontri organizzati per la stampa dallo European Jewish Congress. Il kibbutz si trova lungo il confine ad est della Striscia. Ci sono due recinzioni che lo separano dall’enclave palestinese.

Una delimita il piccolo centro abitato e l’altra a circa un chilometro di distanza delimita Gaza. Ci avviciniamo al punto recinzione del kibbutz, da dove sono entrati i miliziani, ma ci viene chiesto subito di spostarci: esiste ancora il pericolo che dei cecchini di Hamas possano sparare dalla Striscia e colpire chi si trova a Kfar Azza.

Qui vivevano 800 persone. Più di 100 sono state uccise. Quasi nessuna casa è intatta. Vetri rotti, porte divelte, mobili distrutti, muri anneriti dal fuoco appiccato da Hamas, che ha attaccato il kibbutz con circa 70 miliziani, spiega Arye Shalicar, portavoce dell’Idf.

Dal kibbutz si sentono continuamente i rumori di esplosioni e colpi di artiglieria che risuonano violenti nell’aria. «Non ti preoccupare, siamo noi, è tutto a posto», dice Shachar per tranquillizzarci.

Gli ostaggi

In questi giorni tutto Israele è rimasto col fiato sospeso aspettando la liberazione degli ostaggi. La pressione dell’opinione pubblica sul governo per riportare tutti a casa non si affievolisce. La piazza antistante il museo d’arte di Tel Aviv, una delle istituzioni culturali più importanti del paese, è stata rinominata “piazza degli ostaggi”.

Ci sono varie installazioni a ricordare il dramma dei rapiti, per la maggior parte dei quali il destino è ancora incerto e delle cui condizioni di salute non si sa quasi nulla.

Campeggia davanti al museo una lunga tavola imbandita con 240 posti a sedere, a ricordare ogni singolo ostaggio. Tra i parenti e amici degli ostaggi, c’è anche chi dorme in tende montate sulla piazza da più di un mese. Una di queste è Tagit Tzin, la zia di Dafna ed Ella, di 15 e 8 anni, che sono state rapite nel kibbutz di Nahal Oz, non lontano da Kfar Azza.

Il padre Noam è stato ucciso, come pure il fratello Tomer, di 17 anni, che è stato costretto dai miliziani a bussare a varie case per indurre i residenti a uscire. Sono stati tutti uccisi, come pure Tomer, dopo aver completato la missione che gli era stata imposta. Se le famiglie degli ostaggi si sono sentite abbandonate dal governo, non è mai mancata la solidarietà degli altri israeliani. «La disperazione è molto più sopportabile se si sta insieme», dice Tzin, che dorme in una tenda sulla piazza dall’inizio della guerra.

Al Forum delle famiglie degli ostaggi, un’organizzazione di volontari che ha supportato i parenti dall’inizio della guerra, sono ore di trepidazione per l’imminente liberazione dei primi 50. Anche qui riemerge uno dei leitmotiv di questa guerra.

«Non è un conflitto religioso o un conflitto fra Stati o altro ancora», dice Arie Geronik, professore di relazioni internazionali e volontario presso il Forum. «Siamo nel bel mezzo di uno scontro tra civiltà. E noi siamo tutti dalla stessa parte».

Gli sfollati israeliani

In questa guerra esiste anche un fronte nord, nella zona al confine col Libano. A bassa intensità, ma che ha provocato una marea di sfollati all’interno di Israele: in totale, includendo anche quelli delle zone a sud vicine al confine con Gaza, sono circa mezzo milione, per lo più sistemati in hotel.

Ne incontriamo alcuni provenienti dal nord all’hotel Dan Carmel di Haifa. Vengono perlopiù dal kibbutz Dan, situato a poco più di due chilometri dal confine col Libano. «Lo chiamiamo kibbutz Dan Carmel», scherza Samuel, il più loquace del gruppo. Molti di loro vorrebbero tornare a casa. «Pensiamo che l’evacuazione sia un errore», dice Amiran, un ottantaseienne, che vive a Dan dal 1954.

Ricorda che nel 1967 il kibbutz fu attaccato dai siriani e che lo difesero gli abitanti. Lena, un’israeliana di origine bielorussa, è stata evacuata da Shlomi, un’altra località a pochi chilometri dal confine col Libano, vicino alla costa. Dice di aver pensato di andarsene all’estero. «Ma non mi sento sicura in Europa come mi sento in Israele», dice.

Se gli attacchi del 7 ottobre hanno fatto sentire molti ebrei vulnerabili in Israele, il paese nato per dare loro una patria e proteggerli, rimane sempre per la maggior parte di loro il luogo dove si sentono più sicuri.

Ehud Olmert

«La comunità internazionale non guarda a questa situazione come la guardiamo noi», si rammarica l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert che incontriamo in un hotel a Tel Aviv.

«Hamas è un’organizzazione il cui scopo è quello di uccidere gli ebrei. Non c’è una sola cosa che vogliano da noi, nessuna richiesta politica, nessuna disputa territoriale, ma solo che Israele sparisca».

Malgrado Olmert sia uno dei leader politici israeliani che più si sia speso per trovare un accordo con il popolo palestinese, non ha nessuna illusione che si possa trovare un’intesa con Hamas.

Quando era in carica, ricorda, aveva proposto al capo dell’Autorità Palestinese Abu Mazen, una soluzione al conflitto che si basava sulla coesistenza dei due stati e un regime speciale per Gerusalemme, la cui parte araba sarebbe stata la capitale del nuovo Stato palestinese.

«Non mi ha mai detto no a questa proposta, ma non mi ha neanche mai risposto», racconta Olmert. «Se avessimo fatto questo accordo nel 2008 la storia della regione sarebbe stata completamente diversa».

Oltre ad essere inevitabile, l’eliminazione di Hamas è silenziosamente appoggiata da vari Stati musulmani moderati, tra cui Olmert include l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e il Bahrain. «Sotto, sotto sperano che Israele distrugga Hamas», dice l’ex primo ministro.

Inevitabile, sostiene Olmert, sarà anche affrontare la situazione dei Territori occupati, da cui Israele si deve in qualche modo ritirare. Una prospettiva che pensa sia condivisa da molti israeliani.

Prevede che ci saranno elezioni anticipate nei prossimi mesi, a seconda di come andrà la guerra a Gaza. E che Israele avrà un governo completamente diverso da quello attuale. «Chiunque è preferibile a queste persone. Se ne devono andare. Ora».

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