Il ricorso alla giustizia come prosecuzione dello scontro politico è una tentazione da respingere. Si dirà che non è quello di Trump il caso in questione, e che per onorare lo stato di diritto non c’era alternativa alla sua incriminazione, perché nessuno è al di sopra della legge, nemmeno un ex presidente che gode a vita della protezione dello stato per via del servizio prestato.

Ma al di là dei brocardi e delle vuote dichiarazioni di principio è bene notare, con un’oncia di realismo, che un’azione legale del genere contiene per forza, che piaccia o no, un’inevitabile dimensione politica, e non soltanto perché il procuratore distrettuale Alvin Bragg è un democratico che non ha fatto mai mistero della sua collocazione nello spettro ideologico. 

La dimensione politica emerge nella valutazione delle conseguenze di un procedimento legale e nella coerenza di questo rispetto ai fatti politici contestati.

Non c’è bisogno della certificazione del codice penale per sapere che Trump ha negato il risultato di libere elezioni democratiche, tentando perciò di sovvertire il verdetto popolare, e che ha aizzato una folla di sostenitori perché si lanciassero non già in un generico assalto di Capitol Hill – che già sarebbe stato gravissimo – ma nell’esecuzione del blocco delle procedure democratiche. 

Sarebbe una questione da discutere nelle aule di tribunale? Forse, e infatti le indagini della procura della Georgia, dove Trump ha fatto pressioni per alterare il voto, sembravano avere uno sviluppo più lineare rispetto ai soldi pagati a una ex pornostar che sono al centro dell’incriminazione di New York.

È di questo che si discute adesso, e di questo vorrà discutere Trump, che non vede l’ora di fare la sua “perp walk” ammanettato, che forse gli regalerà il poster perfetto di una campagna elettorale che sarebbe ancora più efficace se condotta da dietro le sbarre.

Vista sotto questa luce, non sembra una grande vittoria per gli avversari di Trump. Avversari che, a ben vedere, lo avevano già sconfitto senza ricorrere ai tribunali.

L’ex presidente ha sonoramente perso contro Joe Biden alle elezioni, poi ha perso di nuovo quando il sistema delle garanzie democratiche ha tenuto dopo il tragico epilogo del 6 gennaio 2021. Certo, è sopravvissuto due volte alla procedure d’impeachment, ma quella è appunto una procedura politica che richiede persuasione, convincimento e infine la costruzione di una maggioranza.

Così come lo richiede la sua nuova candidatura alle elezione del 2024, che è prova della sua umana ostinazione e della forza del risentimento come carburante del suo popolo politico, ma in un certo senso per gli avversari sarebbe stata una nuova prova che la “questione Trump” si poteva e si doveva affrontare politicamente, resistendo alla tentazione di passare per una scorciatoia che passa attraverso le aule di tribunale.

L’incriminazione finisce così per essere un assist insperato per l’ormai disperato Trump, rinfocolato dalla prospettiva di poter giustificare le sconfitte politiche che lo aspettano con la caccia alle streghe dei suoi avversari. 

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