C’è l’accordo tra i ministri degli Esteri europei, riuniti in un vertice informale a Berlino, per imporre sanzioni alla Bielorussia o meglio ad almeno venti alti funzionari accusati di brogli: l’Ue non riconosce la vittoria proclamata da Aljaksandr Lukashenko il 9 agosto. Nel frattempo il presidente russo Vladimir Putin avverte: un corpo di polizia è pronto a intervenire per Lukashenko, anche se “per ora non ne vedo il bisogno”. 

Dal giorno del voto il paese è indomito: da una parte scioperi e proteste, con la guida morale (dalla Lituania) della principale leader di opposizione, Svetlana Tikhanovskaya. Dall’altra la repressione, con arresti di massa, violenze, e lo stesso Lukashenko, al potere dal 1994, che alle telecamere esibisce il kalashnikov; ora accusa pure la Polonia di voler annettere un pezzo del paese.

Come disinnescare la trappola bielorussa? L’Ue in ogni forma (dall’europarlamento al consesso dei governi) invoca elezioni libere e democrazia, ma si limita per ora ad azioni mirate (con le sanzioni colpisce non la popolazione ma i gangli del potere) e pacifiche (la Commissione vuol dedicare due milioni di euro alle vittime della repressione). La cautela ha almeno due ragioni: evitare uno scontro frontale con la Russia, optando piuttosto per una soluzione concertata (non a caso l’Ue non ha chiesto la deposizione immediata di Lukashenko); e fugare i sospetti di longa manus sulle politiche di un paese che non è membro dell’Ue e non ha mai neppure chiesto di aderire alla Nato. 

“Questa non è una rivoluzione geopolitica, non è né anti né pro Russia o Ue” ha sottolineato non a caso Tikhanovskaya davanti all’Europarlamento il 25 agosto, invocando elezioni libere e indipendenti e affermando comunque che “la Bielorussia è parte dell’Europa”. La rivoluzione non sarà “geopolitica”, ma lo è la rilevanza della Bielorussia, che è riuscita con rara rapidità a uscire dalla condizione di nazione poverissima del continente (il numero di persone in condizioni di povertà è calato dal 60 per cento del 2000 all’1 del 2013). Questo paese è il cuscinetto che separa l’Ue da Putin. Il politologo Samuel Huntington in “Scontri di civiltà” lo inseriva tra i “paesi-soglia”, confine poroso tra civiltà ortodossa e occidentale. Caratteristiche simili all’Ucraina, che nel 2014 è finita in guerra.

Lukashenko mantiene vincoli forti con Mosca, generosa di prestiti, partner in economia (nella Unione economica eurasiatica) e difesa (nella Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva). A legare a filo doppio Minsk alla vicina è soprattutto la dipendenza energetica. Ma il leader contestato del paese ha anche ritagliato qualche margine di autonomia, che si traduce ora in margine di manovra per chi volesse negoziare con Mosca una alternativa. Nel caso bielorusso c’è poi un terzo attore, meno visibile: la Cina, che infatti ha subito riconosciuto la vittoria del partner e ora teme il dissesto politico. Non solo Pechino commercia, fa prestiti e investe in infrastrutture (il “parco industriale Cina-Bielorussia” a venticinque chilometri dalla capitale è uno degli esempi concreti), ma ha pure attirato Minsk dentro la “via della seta”, in quanto sbocco chiave verso Europa orientale e Balcani.

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