Antony Blinken, il segretario di Stato americano, ha detto di temere che lo scontro su Taiwan fra Cina e Usa metta in ginocchio la fornitura di chip e l’economia mondiale.

L’annuncio non sorprende chi ricorda come all’uscita dalla pandemia una montagna di merci fossero ferme proprio per carenza di chip a completarle.

È vero che molti chip gli Stati Uniti se li producono da soli con Intel, Micron Technology, Texas Instruments e GlobalFoundries, ma attualmente, fra sanzioni anticinesi e crisi dei consumi dovuta all’inflazione, ne hanno fin troppi di quelli basilari mentre ancora non producono i modelli più avanzati.

Analoga la situazione dei produttori di strumentazioni specializzate e di intere “fabbriche di chip”, che vedono crollare il fatturato perché costretti dalle sanzioni a non vendere alla Cina.

A disturbare i sonni dei produttori americani c’è poi la potenza di Tsmc, la Taiwan Semiconductor Manufactoring Company, che da sempre li incalza sul mercato dei chip di rango medio e basso, ma da tempo li ha sopravanzati nella produzione di chip molto più potenti grazie a circuiti sottili fino a tre nanometri.

Va da sé che questi sono i chip decisivi per le varie intelligenze artificiali e per rendere i sistemi d’arma più precisi ed affidabili.

La trappola di Tucidide

Qui s’inserisce la sfida della Cina a rendersi autonoma dagli acquisti dei chip “stranieri” d’ogni tipo.

Se mai ce la facesse spiazzerebbe in prospettiva sul mercato globale il ruolo di Taiwan (da cui compra tuttora i chip di minor rango) mentre nell’immediato rende incerti i conti delle imprese Usa volti ad arrivare in qualche anno, con l’aiuto colossale del governo, a fare chip migliori.   

Questa storia sembra ammonire a leggere la trappola di Tucidide al contrario. La prima lettura è che crescendo la potenza di Atene era inevitabile che Sparta, prima di perdere ogni vantaggio, le facesse guerra.

Oggi l’Atene cinese più cresce e più diviene per gli Usa una minaccia, per cui... Ma a questo punto si potrebbe dire che anziché la fatalità della guerra – anche se nella forma succedanea di sanzioni – scatta la trappola dell’obbligo a vivere la crescita in comune, come due pugili che si tengono stretti per non prendere a picchiarsi.

Perché la Cina potrebbe farcela

Mentre eravamo presi dai due corni del dilemma ci sono venute in soccorso le riflessioni di Ben Thompson, rinomato esperto americano residente proprio a Taiwan, che sul suo blog Stratechery viviseziona giorno dopo giorno le tecniche e gli affari collegati alle telecomunicazioni e all’informatica.

Il 27 ottobre Thompson ha scritto “Chips and China” (14 pagine di disanima profonda delle industrie Usa e Taiwanesi) per giungere a soppesare le chance della Cina in questa sfida.

Esistono, a suo parere, tre ragioni per cui la Cina potrebbe farcela. La prima ragione consiste nel “vantaggio dell’inseguitore” che risparmia tutto il tempo impiegato dagli altri per scartare le chimere e scegliere rotte produttive.

La seconda ragione è che la Cina sa già molto di quel che deve fare perché, dopo che da tutto il mondo le hanno venduto per anni gli impianti più avanzati, usare qualcosa significa anche immaginare com’è fatta.

La terza e strategica ragione è che già esistono, sotto forma di big tech come Tencent, Ali Baba, Baydu, per non dire di Huawei, i clienti grandi e robusti dei chip cinesi, sicché l’investimento, per quanto colossale, punta sul sicuro.

In più aggiungiamo che, dato che Tucidide è conosciuto anche in Cina, la rincorsa cinese, sostenuta insieme da calcolo e paura, è strutturale non meno e forse più della contro spinta Usa che cerca di bloccarla.

Dopodiché, il giorno che avrà i chip fatti in casa, la Cina cesserà d’avere per Taiwan ogni occhio di riguardo e ne potrebbe danneggiare l’industria in vari modi (materie prime, semilavorati, esclusione dal mercato continentale). Una trappola sicura, rientri o meno in quella di Tucidide. 

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