C’è un equivoco nell’idea, peraltro diffusa con nobili intenti, che la violenza vada sempre mostrata affinché sia un monito a rifiutarla, condannarla e a impedire, in definitiva, che dilaghi. Ma è proprio così? Basterebbe un calcolo empirico all’ingrosso per concludere che no.

Siamo invasi, pervasi, da immagini truci che imperversano dalle televisioni ai social media, aumentate a dismisura ora che alle guerre dimenticate se ne sono aggiunge due fortemente mediatizzate e non si può certo affermare che la quota di violenza sia diminuita anzi si è dilatata sia che si tratti di eserciti e terrorismo sia che riguardi la micro e la macro criminalità. Perché la violenza è una droga, esercita un fascino perverso, stimola il voyeurismo quando non l’ammirazione, in casi estremi anche l’imitazione.

C’era un tempo, prima che l’homo videns prendesse il sopravvento sull'homo sapiens (copyright di Giovanni Sartori), in cui i quotidiani avevano deciso di non raccontare nei dettagli le modalità di un suicidio, tanto più se non erano usuali (violenza su sé stessi) perché si era appurato statisticamente che altri lo avrebbero copiato.

Ora che le informazioni arrivano sempre più da media visivi il problema è centuplicato e non bastano gli avvertimenti come “attenzione, non guadare, potrebbe urtare la tua suscettibilità”, o “abbiamo deciso di non mandare in onda le sequenze più scabrose”: scatenano ancora di più il desiderio di andare a cercare il celato attraverso le mille possibilità di cui la rete dispone.

Propaganda e proselitismo

Non si sono mai del tutto placate le polemiche sulle serie tv o i film che riguardano le mafie nostrane perché diffonderebbero “una cattiva immagine del paese”. Fanno in realtà di peggio, oltre a mitizzare personaggi negativi: sdoganano una supposta normalità di certi metodi spicci, esattamente come i videogame.

Analogamente va con la guerra, in circostanze ovviamente molto diverse. Hamas non è lo Stato islamico per progetto politico e finalità. Ma Hamas dallo Stato islamico ha mutuato l’insegnamento che la propaganda attraverso efferatezze immonde favorisce il proselitismo.

Abu Bakr al-Baghdadi non ha mai avuto tanti volontari per il suo esercito quanti se ne sono contati dopo spettacolari esecuzioni capitali riprese con tecnica sopraffina. Così i terroristi del 7 ottobre con le telecamere Go Pro legate sulla fronte hanno creato l’idea di una luciferina “geometrica potenza” che ha sicuramente eccitato le menti dei più benevolmente disposti ad accogliere il messaggio estremo.

Il desiderio di rimozione

C’è poi il problema delle persone di buona volontà. La massa indistinta che ripudia la violenza e si commuove davanti al bambino sterminato senza pietà, ai piccoli coccolati dagli assassini dei genitori e poi rapiti, ai vecchi in cattività, ai giovani di un rave party in precipitosa fuga senza scampo dalla fine intuita quando non esplicitata.

Poco dopo sugli schermi scorrono le distruzioni di una città, i palazzi che crollano, i corpi inanimati o irrimediabilmente feriti altri bambini. Una overdose di violenza che colpisce il cuore, le viscere, muove alla pietas. Ma, e questo è il punto, provoca alfine un desiderio di rimozione, come se fosse impossibile sopportare oltre. E si cambia canale. Delegando a un’offerta umanitaria il compito di lavare l’offesa della propria distrazione e coprendo così l’incolmabile distanza tra l’enormità dell’evento e la personale capacità di incidere. Certo con qualche senso di colpa.

Il cuore, le viscere, coinvolti. Le autorità israeliane qualche giorno fa hanno chiesto ai giornalisti di lasciare i propri telefonini fuori da una stanza dove hanno proiettato le parti più indigeribili delle nefandezze di Hamas. Sfidandoli a cercare le parole per descrivere quanto avevano visto. E ridando, consapevolmente o meno, un primato alla parola scritta.

Primo Levi

Impossibile non pensare a Primo Levi, alla persona che da noi e non solo, attraverso un linguaggio scarno e senza aggettivi, è riuscita a trasmettere come nessun altro l’enormità della Shoah, cioè della catastrofe dell’umanità che, per intuibili motivi, non aveva potuto avere immagini. Levi parlava non alle viscere ma alla testa. Ed era lo stesso intento di un altro grande ebreo, Bertolt Brecht, che aveva teorizzato la volontà di rivolgersi al cervello degli spettatori attraverso lo “straniamento”.

Perché l’emotività non influisse sulla capacità raziocinante, la sola che permette un approccio in qualche modo scientifico alle questioni e favorisce nel tempo lungo la comprensione dei fenomeni. Al contrario delle emozioni fine a sé stesse che scompaiono nel breve spazio di una performance.

Per questo dobbiamo diffidare della violenza estetizzata, della sua invasività che produce assuefazione e una seppur umana fuga nel nostro quotidiano. E finiamo per cullarci nell’idea, per dirla con Lucrezio, di vedere dalla riva l’altrui naufragio. Un’illusione.

© Riproduzione riservata