Accordo con Israele: gli Emirati Arabi Uniti continuano a stupirci. Dopo la più grande centrale solare del globo e la prima centrale nucleare nel mondo arabo, il piccolo stato del golfo macina al triprimati.

C’è del metodo nel nuovo volto che l’emiro Mohammed Ben Zayd (detto Mbz) sta dando al suo paese: non solo petrolio ma una visione di lungo periodo. Alcuni la chiamano la “piccola Sparta”, ed è vero che gli Emirati sono ben armati con sistemi sofisticati, ma l’appellativo migliore è “Serenissima d’oriente”. Sparta infatti si imponeva solo con le armi; Venezia invece usava sapientemente armi e commercio: è quello che fa Abu Dhabi.

C’è un progetto, uno schema dentro la globalizzazione, pensato per adattarsi ai tempi e riuscire a trarne tutti i vantaggi possibili. La federazione dei sette piccoli emirati (1971-72) ha dato al più grande (Abu Dhabi) la primazia politica e al secondo (Dubai) quella economica. Ma il petrolio non durerà per sempre (anzi, a Dubai è già esaurito) e quindi occorre investire sul futuro. Il primo passo è stato copiare Singapore: trasformare l’Emirato in un nodo globale di scambi, commercio e finanza innovativa.

Occorreva anche difendersi dalle prepotenze dei vicini, i sauditi, blandendoli ma anche superandoli in capacità tecnologica e approfittando della rete globale. Oggi gli Emirati sono un nodo imprescindibile dei network finanziari, commerciali e digitali.

Com’è noto, la globalizzazione preferisce le “città lepri” (uso l’espressione del grande storico francese Fernand Braudel) agli “stati tartaruga”: è il momento di una forma nuova di città-stato, al modo della Serenissima, appunto.

La carenza di territorio e una scarsa popolazione non troppo omogenea (asset strategici che l’Arabia invece possiede), ha costretto il piccolo paese a guardare verso il mare, oltre l’Oceano Indiano. Sporgendosi sia sul Golfo Persico che su quello di Oman, gli Emirati si possono muovere in molte direzioni. Il secondo passo è stato sfruttare tale posizione geostrategica per lanciarsi in proprio.

Se da una parte ha accettato l’avventura militare in Yemen per far piacere all’ingombrante vicino di Riad, Abu Dhabi non ha mai davvero creduto molto in quella guerra. Più che verso ai monti dove sono asserragliati gli huthi e restano imprendibili, guarda verso il mare. Così ha approfittato per mettere le mani sull’isola di Socotra, territorio yemenita ma posto in mezzo all’oceano in una posizione molto interessante.

Una tattica “alla Serenissima”: novella Venezia, gli Emirati si giocano una partita per la leadership dell’oceano che va dalla penisola arabica fino alla Somalia e al Mozambico. Il metodo è utilizzare il commercio e lo strumento militare in alternanza: una specie di dual use molto conveniente. D’altra parte, gestire un porto sulla costa oceanica (che adocchia l’Asia) può presentare i due aspetti assieme o permettere una facile transizione dall’uno all’altro.

Il quadrante in cui si muovono gli Emirati non è dei più semplici. All’inizio degli anni Settanta, il Qatar non ha voluto associarsi agli altri emirati e ha cercato a sua volta una via autonoma, legandosi però alla Turchia, invitata a posizionare a Doha una base militare (un ritorno cent’anni dopo la fuga degli Ottomani). Ciò ha fatto imbestialire l‘Arabia, ma lucidamente Mbz è stato più duttile e ha cercato di non inimicarsi il piccolo vicino.

Anche Abu Dhabi deve proteggersi e ha acquisito nuove navi per la marina militare, droni e aerei costruiti in partecipazione con la Cina. Poi c’è stata la Libia: i droni emiratini prodotti in Cina sono stati essenziali per l’offensiva del generale Haftar, anche se ora Abu Dhabi si è fatta più prudente. Partecipare a dei conflitti è utile se c’è ricavo (almeno in termini di influenza), altrimenti si abbandona il campo in sordina come sta facendo in Yemen e oggi forse anche a Bengasi.

Gli Emirati sono divenuti specialisti nel “mordi e fuggi”: si prende ciò che c’è da ricavare e si sparisce appena viene a mancare il tornaconto. Meglio non farsi risucchiare da vicende più grandi, cioè conflitti in cui altri (molto più grossi) possono o sono costretti a restare.

Oltre che con la Turchia, anche con l’Iran le relazioni sono diversificate: per Riad si tratta di un nemico esiziale; per Abu Dhabi un altro vicino scomodo da gestire mediante i commerci (mai interrotti). L’idea emiratina è di saper cogliere ogni opportunità: andare verso il Corno d’Africa, le Maldive, le Seychelles e le Comore; guardare verso l’Asia; non dimenticare il Mediterraneo.

Dopo la fase libica ora c’è quella mediorientale: l’accordo con Israele. Basta che lo stretto di Bab al Mandeb all’imbocco del Mar Rosso resti libero per il passaggio. Per questo Mbz ha considerato utile mettersi d’accordo con l’Eritrea, con forti investimenti nel porto di Assab, un tempo abbandonato e che ora ha ripreso vita con l’aeronautica e la marina emiratine a farci da base. Verso meridione c’è la Somalia, cioè per meglio dire ciò che ne resta: il Puntland o il Somaliland con i rispettivi porti di Bosaso e Berbera, dove il gigante portuario Dubai Port World sta creando terminali. Gli Emirati puntano anche a Zanzibar, volgendo lo sguardo verso il Pakistan.

Come fece la Serenissima si tratta di creare pezzo dopo pezzo una specie di “Dominion marittimo”, composto da porti commerciali e basi militari (intercambiabili fra loro). Ad Abu Dhabi riflettono anche sulle connessioni possibili con la Cina: cioè a come collegarsi alla “via della seta marittima” e alla “collana di perle”, cioè alla stringa dei porti asiatici controllati da Pechino.

In Africa orientale e australe si utilizza anche la carta dell’islam, finanziando le varie comunità (qualcuno sospetta anche gruppi armati) e riaprendo i vecchi percorsi dei mercanti arabi a caccia di affari e proseliti. D’altronde, e l’accordo con Israele lo dimostra, tutto ciò è funzionale all’annosa vicenda della battaglia intestina all’islam per chi sarà egemone.

Dopo la fine dell’Iraq e della Siria, restavano quattro grandi attori: Turchia, Arabia Saudita, Iran ed Egitto. Quest’ultimo, impantanato nelle crisi interne e in Libia, non gioca più un ruolo primario. Rimangono gli altri tre, con tre visioni diverse dell’islam: quella iraniana sciita, teocratica e rivoluzionaria, basata sulla riforma sociale e l’accesso al potere dei “dannati della terra”.

Poi c’è quella turca dei Fratelli musulmani, che si fonda sulla borghesia imprenditoriale e commerciale religiosa, una specie di ceto medio conservatore. Infine quella dell’alleanza tra la casa regnante (i Saud) con i wahabiti rigoristi: un salafismo estremista negli usi e costumi ma molto pragmatico nelle alleanze. Una situazione complessa in cui gli Emirati per ora possono stare solo dalla parte di Riad e cercare di non inimicarsi troppo gli altri. È essenziale quindi per Abu Dhabi smarcarsi da tale rissa continua per andare oltre senza lasciarsi frenare da niente.

Ecco le vere ragioni per cui Mbz ha voluto l’accordo con Israele. Tutti dicono che si tratti di una prova generale per quello con i sauditi. Sarà, ma intanto Abu Dhabi gioca soprattutto per sé stessa, non disdegnando di affacciarsi anche sul versante orientale del Mediterraneo dov’è in corso un’altra lotta: quella per il controllo delle fonti di energia, degli oleodotti e delle rotte migratorie tra Turchia, Egitto e stati europei. Resta da capire cosa potrà ottenere.

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