Nonostante siano occorsi ben sette anni di trattative, alla fine l’Unione europea e la Repubblica popolare cinese hanno appianato le reciproche difficoltà e diffidenze, giungendo, poche ore prima della fine del 2020, all’annuncio di un accordo sugli investimenti, il Comprehensive agreement on investment (Cai), che promette di rendere le rispettive economie ancor più interdipendenti.

In linea di massima, l’accordo dovrebbe garantire un accesso più semplice da parte degli investitori europei ad alcuni settori chiave del mercato cinese, come le telecomunicazioni, la finanza ed il mercato delle automobili: da questo momento in poi, infatti, dovrebbero essere eliminate le restrizioni protezionistiche – come la necessità di dare vita a joint venture con le aziende cinesi in cui queste ultime possedevano il controllo di gran parte delle quote – che hanno a lungo impedito agli europei di competere ad armi pari con i cinesi. Proprio per questo motivo il Cai è stato sostenuto a spada tratta da Angela Merkel, la quale, trovandosi ormai nella fase finale della propria carriera politica, era desiderosa di lasciare il suo sigillo sullo storico trattato tra la Cina e l’Unione Europea e si è battuta affinché esso fosse chiuso prima della scadenza del semestre di presidenza tedesca dell’Unione.

Vantaggi per entrambi

Del resto, è utile ricordare come di recente la Cina abbia scalzato gli Stati Uniti diventando il primo partner commerciale dell’Unione europea – per un volume complessivo pari a circa 480 miliardi di euro – e la Germania rappresenta la capofila europea nell’interazione economica con Pechino.

L’accordo potrebbe rivelarsi una manna dal cielo anche per la Cina, date le molteplici critiche globali a cui è stata esposta di recente, dal fallimento della “diplomazia delle mascherine” alle accuse di violazione dei diritti umani passando per la sistematica soppressione delle libertà individuali dei cittadini di Hong Kong; Pechino è sempre più impegnata a ricercare nuovi spazi territoriali e nuovi ambiti di investimento estero, sia per dimostrare di non essere soggetta ad alcun isolamento diplomatico, sia per reagire all’esacerbazione della guerra commerciale con gli Stati Uniti, a causa della quale molte società stanno lasciando il paese.

L’iter del Cai, tuttavia, non può dirsi formalmente concluso: esso, infatti, dovrà essere sottoposto ad una valutazione giuridica, siglato formalmente da europei e cinesi, approvato ufficialmente dal parlamento europeo e, potenzialmente, anche dai parlamenti dei paesi membri. Un processo che potrebbe vedere la sua conclusione agli inizi del 2022, se tutto dovesse avanzare senza scossoni.

Scetticismo diffuso

Non tutti, comunque, sono rimasti particolarmente entusiasti dell’accordo siglato con Pechino: alcuni paesi europei hanno ribadito le proprie preoccupazioni riguardo all’abilità, da parte dell’Unione, di incidere efficacemente sull’annosa questione del rispetto dei diritti umani in Cina, in particolare ai danni della minoranza uigura dello Xinjiang.

La Cina, nonostante si sia impegnata ad un maggiore rispetto degli standard internazionali, ha infatti opposto un netto rifiuto alla richiesta di inserire nel Cai una clausola a favore dell’abolizione del lavoro forzato, negando in modo deciso che il paese adotti tali pratiche. Altri, come la Polonia, si sono chiesti quale fosse la necessità di procedere così speditamente alla ratifica dell’accordo con il paese che nell’aprile del 2019 era stato definito “rivale sistemico” dall’Unione europea e se non fosse più indicato attendere l’inaugurazione della nuova amministrazione americana guidata da Joe Biden.

È forse superfluo, del resto, sottolineare come il Cai abbia attirato l’attenzione degli Stati Uniti: oltre alle ovvie resistenze da parte dei trumpiani, come il segretario di Stato Mike Pompeo – il quale in un recente discorso pubblico tenuto nello stato della Georgia (ritwittato immediatamente prima che l’accordo tra cinesi ed europei fosse chiuso) ha dichiarato che l’obiettivo finale del partito comunista cinese è quello di «dominare il mondo» – anche gli esponenti della nuova amministrazione Biden hanno cercato di far sentire la propria voce, chiedendo invano di essere consultati prima che Bruxelles chiudesse il negoziato con Pechino.

La decisione degli europei di non dare troppo peso alle obiezioni del neopresidente americano indica, con tutta probabilità, che le relazioni con Washington non torneranno in maniera automatica al sentimento di fiducia reciproca prevalente ai tempi di Barack Obama.

Agli occhi di molti il Cai rappresenta un clamoroso successo per la Cina, sia perché esso incentiverà gli investimenti europei, utili a rafforzare il processo di sviluppo economico e tecnologico di Pechino, sia come fonte di legittimazione interna del regime guidato di Xi Jinping, nell’occhio del ciclone interno e internazionale. Più di tutto, comunque, sembra che la Cina sia alla fine riuscita ad incunearsi tra Europa e Stati Uniti, scavando un solco profondo proprio nel momento in cui Biden ha reso noto di voler procedere a ripristinare i tradizionali legami transatlantici, fiaccati dalla gestione di Donald Trump, al fine di contrastare Pechino sia dalla prospettiva economica sia da quella della sicurezza.

In prospettiva geopolitica, il nuovo accordo manderebbe quindi un segnale preoccupante a Washington, in base al quale l’Europa non sarebbe disposta a seguirla nella disputa con Pechino, preferendo, invece, accomodarsi in una posizione mediana tra le due superpotenze, scegliendo di volta in volta la strategia da seguire. Una posizione di questo genere sarebbe estremamente gradita alla Cina, che potrebbe così continuare, pragmaticamente, a forgiare la propria diplomazia nei confronti dell’Europa al fine di boicottare la narrativa americana della “minaccia cinese”, che continuerà presumibilmente a rappresentare una delle leve statunitensi volte a riunire gli alleati occidentali.

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