Per anni l’Africa subsahariana ha rappresentato uno scenario secondario per gli Stati Uniti. Durante la Guerra fredda è stata appannaggio delle ex potenze coloniali – soprattutto Regno Unito e Francia – che la controllavano in nome e per conto dell’occidente. Soltanto in rare circostanze Washington interveniva direttamente, come nel caso della guerra in Angola (erano coinvolte Urss, Cuba, Germania est), di quella etiopica o e della transizione dall’apartheid alla democrazia in Sudafrica.

Ronald Reagan vi ha combattuto i comunisti. Con Bill Clinton la politica africana ha assunto le caratteristiche tipiche dell’epoca: quel “not aid but trade” inverato nel programma di incentivi economico-commerciali dell’Agoa (Africa Growth and Opportunity Act). L’amministrazione Bush Jr., fedele al suo “compassionate conservatism”, ha messo l’accento sulla cooperazione mediante il Pepfar, programma di aiuto contro l’Hiv-Aids, poi modificato da Barack Obama. Quest’ultimo si è disinteressato del continente mentre Donald Trump ha avuto parole irrispettose per i paesi africani.

Ora Joe Biden si sta impegnando nel ridefinire l’interesse americano connettendolo al contrasto dell’attivismo cinese e dell’aggressività russa. Gli Usa tentano di sfruttare parte del dinamismo economico africano inserendolo tra le priorità della propria sicurezza, come affermato dal vicesegretario alla Difesa per gli affari africani Chidi Blyden davanti al Senato.

Le priorità americane

Tali priorità includono la lotta contro le organizzazioni estremiste violente (gruppi terroristici e/o jihadisti); il sostegno agli alleati e ai partner che hanno obiettivi di sicurezza comuni; la “competizione strategica” verso gli avversari degli Stati Uniti (Russia e Cina).

L’attenzione è posta sull’area del Sahel a causa dell’aumento dell’instabilità, dei colpi di stato militari e della presenza armata di gruppi legati ad al Qaeda o allo stato islamico che minacciano gli stati costieri del golfo di Guinea. Secondo gli Stati Uniti si tratta di fermare un circolo vizioso. «Gruppi che mettono a repentaglio la stabilità, la democrazia e la pace, offrendo così ulteriori occasione di proliferazione all’estremismo, creando un ingranaggio violento alimentato dalla mancanza di buon governo e di rispetto dei diritti umani» come ha dichiarato Blyden alla commissione Esteri del Senato.

L’altro quadrante che preoccupa l’amministrazione Usa è il Corno d’Africa: dal Sudan all’Etiopia, spingendosi fino al nord Mozambico. La lente con cui gli americani guardano alle aree di crisi africane è quella dell’esito della guerra in Afghanistan: la debolezza e la corruzione degli eserciti governativi locali ricorda molto da vicino il disastroso esito delle operazioni a Kabul.

«Come abbiamo visto in altri teatri chiave», ha detto Blyden, «non riuscire a comprendere le cause profonde a livello locale e a capire i nostri partner, soprattutto la loro volontà di combattere, può avere conseguenze significative». Come esempio recente di tale incapacità c’è il fatto che il Dipartimento di stato ha annunciato l’adesione al G5 Sahel (la forza armata congiunta tra paesi saheliani) a pochi mesi dal ritiro francese che l’ha mandata all’aria.

La corruzione nelle forze armate

In aprile la Casa Bianca si è rifocalizzata su sette paesi ritenuti ad alto rischio, tra cui cinque dell’Africa occidentale costiera (Benin, Costa d’Avorio, Ghana, Guinea e Togo), oltre a Libia e Mozambico. La nuova strategia statunitense, resa nota dal Segretario di Stato Antony Blinken durante il suo secondo viaggio nel continente di agosto, include anche la lotta contro la corruzione nelle forze armate.

L’idea è che la sicurezza fine a sé stessa non basti: ci vuole una buona amministrazione anche nel campo della difesa. Nel Sahel tutte le istituzioni sono in crisi: si può dire che il contratto sociale tra popolazione e Stato sia fallito lasciando spazio a forme di governance alternativa ed eversiva, come quella jihadista.

Non sono poche le regioni africane dove la popolazione locale preferisce affidarsi alla sharia dei gruppi armati, per avere almeno una parvenza di giustizia e sicurezza. Non mancano forti controversie su tale approccio. In Ciad, ad esempio, il dipartimento di Stato non ha voluto definire l’ascesa al potere del presidente Mahamat Idriss Déby come un colpo di stato, attirandosi le critiche interne della commissione Esteri del Senato che ha bloccato ogni esborso degli Stati Uniti alle forze di sicurezza ciadiane, con grande disappunto del Pentagono.

Non è bastato a Blyden ricordare che il Ciad è stato uno dei soli sei paesi africani ad appoggiare la sospensione della Russia dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite in seguito all’invasione dell’Ucraina.

Oggi l'influenza crescente di Mosca nel continente è una delle principali preoccupazioni di Washington, come si vede dagli avvenimenti in corso in Burkina Faso dove i militari si sono divisi in fazioni pro e contro la Russia.

Per questo il dipartimento della Difesa Usa si sta impegnando a evidenziare ai vertici africani i rischi e le criticità delle attività cinesi e russe in Africa. All’epoca di Obama e Donald Trump l’avversario prioritario in Africa era Pechino; con Biden ci si concentra soprattutto su Mosca che oltre armi offre anche grano.

Le ragioni cinesi

Da tempo i cinesi si lamentano del fatto che in Africa la Casa Bianca faccia ogni sforzo per dividere il mondo in democrazie e autocrazie – cosa secondo loro non accettabile – accusando gli americani di «regressione democratica».

Tuttavia le conseguenze dell’aggressione russa all’Ucraina indeboliscono le ragioni cinesi, aggravando l'insicurezza alimentare ed energetica di tutto il continente. A maggio scorso il dipartimento della Difesa ha annunciato il ritorno di diverse centinaia di militari statunitensi in Somalia per aiutare a combattere la rinascita di al Shabaab, ribaltando la decisione del presidente Donald Trump di ritirarle. Intanto la guerra (segreta) dei droni si allarga al continente subsahariano: il comando Usa in Africa (Africom) ha reso noti diversi attacchi contro sospetti terroristi sia in Somalia che altrove. 

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