Sono passati circa quaranta giorni dalla mozione di sfiducia all’allora speaker repubblicano della Camera, Kevin McCarthy, “colpevole” di aver trattato con i democratici per evitare lo shutdown del governo statunitense a fine settembre.

Oggi il suo successore Mike Johnson, confermato dopo una lunga serie di veti incrociati, si trova in una situazione analoga, a pochi giorni dalla deadline del 17 novembre, quando scadranno i fondi che fanno funzionare la macchina della burocrazia federale americana. Anche Johnson non potrà contare su alcuni membri della destra del suo partito e avrà bisogno dei democratici.

Per qual motivo? Fino allo scorso fine settimana, gli analisti e i commentatori di politica non avevano idea se Johnson avrebbe indossato la casacca istituzionale oppure quella di estremista trumpiano. A sorpresa, il mite Johnson ha teso la mano alla Casa Bianca con una strana proposta: anziché presentare un disegno di legge complessivo che copra tutte le voci di spesa, ha deciso di presentarne due.

Il primo riguarda le spese più strettamente legate al welfare e all’economia: i sussidi all’agricoltura, gli appalti sulle costruzioni militari, il finanziamento delle cure mediche ai veterani delle forze armate e altri progetti del settore energetico e idrico. In questo caso, i fondi durerebbero fino al 19 gennaio. Nel secondo ci sarebbe invece la spesa militare, che finanzierebbe la macchina bellica fino al 2 di febbraio. Per evitare controversie, Johnson esclude di collegare a questo provvedimento qualsiasi discussione riguardante gli aiuti militari a Israele e Ucraina.

Il problema di Johnson

Nella proposta di Johnson non vengono chiesti nuovi tagli che avrebbero poche chance di passare al Senato a maggioranza dem e a maggior ragione sarebbe quasi impossibile ottenere il via libera dal presidente Biden.

Dall’altra Johnson cerca in questo modo di mantenere le sue credenziali di conservatore fiscale e di evitare quello che accade ogni anno e che potremmo definire “assalto alla diligenza”, prendendo a prestito il gergo politico italiano: ovvero quel fenomeno che fa sì che complice i tempi ristretti qualche deputato o senatore zelante tenti di far passare di straforo dei progetti che sono molto graditi ai suoi elettori ma che hanno poco senso nel complesso.

Il problema di Johnson però è che alcuni conservatori fiscali dei quali faceva parte fino a ottobre non hanno per niente apprezzato quello che per loro è un voltafaccia, tanto che uno dei più noti esponenti del Freedom Caucus ipertrumpiano, il deputato del Texas Chip Roy, ha definito i due provvedimenti come assimilabili a quelli che proponeva Nancy Pelosi quando i dem avevano la maggioranza e che questo non si possa accettare in nessun caso, nemmeno per “future promesse” da parte democratica.

Stesso parere anche per la rappresentante della Georgia Marjorie Taylor Greene e il suo collega dell’Ohio Warren Davidson. Qualora i dem votassero compattamente contro, i repubblicani possono permettersi di perdere solo quattro voti. Una situazione estremamente precaria dove si capisce soltanto che Johnson abbia fatto quest’azzardo contando su due fattori.

L’incognita

Intanto, crede che in fin dei conti qualche dem eletto nei distretti a rischio possa accettare questo compromesso per evitare di perdere preziosi voti moderati a circa un anno dal rinnovo della Camera. Dall’altro crede che l’ex presidente Donald Trump e i suoi fan più scalmanati useranno nei suoi confronti un occhio di riguardo rispetto a quanto accaduto con McCarthy.

C’è però un’incognita che Johnson non ha calcolato: Trump non ha mai esitato a invocare l’uso dello shutdown come misura estrema per piegare la controparte a negoziare alle sue condizioni. Quindi non è escluso che l’ex presidente stracci metaforicamente le proposte di Johnson semplicemente digitando qualche centinaio di caratteri sulle pagine del suo social media Truth.

Una prospettiva che fa rabbrividire non solo i repubblicani, che potrebbero nuovamente piombare nell’incubo di una nuova faida tra fazioni, ma anche la Casa Bianca, che dovrebbe ulteriormente rimandare l’invio di quanto promesso a Kiev e a Tel Aviv nel discorso tenuto da Biden in diretta televisiva lo scorso 20 ottobre.
 

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