Nella ristretta cerchia di quelli che attorniano l’ex presidente Donald Trump, alcune hanno un ruolo particolare. Sono degli uomini del destino, vendicatori delle persecuzioni subite dal loro eroe nella lotta contro la cricca dem che domina gli Stati Uniti. Due di loro, John Durham e Rudy Giuliani, non appartengono a quel sottobosco di ideologi iperconservatori che ronza intorno a Trump, come ad esempio Steve Bannon o Stephen Miller. Durham e Giuliani sono uomini di legge, con una lunga carriera da procuratori coraggiosi.

Partiamo da Durham, che ha appena chiuso con un report di 300 pagine la sua lunga indagine riguardante le motivazioni dell’inchiesta dell’Fbi sulla connessione tra Trump e la Russia, gestita dal procuratore speciale Robert Mueller e conclusa con un nulla di fatto o quasi.

A questa l’amministrazione Trump rispose con un nuovo procedimento inaugurato nell’ottobre 2020, quando Durham venne nominato dall’allora procuratore generale William Barr nella carica di procuratore speciale, ovverosia non licenziabile da un suo successore d’orientamento diverso.

Per farla breve, l’assunto di Barr, all’epoca fedelissimo del presidente, era che c’era qualcosa sotto nell’indagine di Mueller. Di fatto doveva esserci lo zampino di Hillary Clinton e di un grosso pezzo di “deep state” restio ad accettare la rivoluzione trumpiana.

Quasi tre anni dopo, c’era molta attesa per le conclusioni di Durham, funzionario di lungo corso del dipartimento di giustizia, esperto di corruzione dell’Fbi e in passato al servizio di procuratori generali di diverso orientamento politico come la dem Janet Reno e il repubblicano Michael Mukasey.

Risultato? A parte la considerazione che «l’Fbi non avrebbe dovuto far partire l’indagine e non ha dedicato sufficiente attenzione ad analoghi sospetti nei confronti di Hillary Clinton», ci sono ben poche persone coinvolte. Il pesce più grosso è l’avvocato Michael Sussmann, un esperto di cybersicurezza, accusato di falsa testimonianza all’Fbi sui legami di Trump con una banca russa legata al Cremlino.

Lo scorso maggio era arrivata però l’archiviazione di fronte al gran giurì istituito da Durham per capire se c’era margine per un’incriminazione. Poi c’è stato anche un colpevole, un avvocato dell’Fbi chiamato Kevin Clinesmith che ha patteggiato una pena pecuniaria per aver falsificato delle evidenze per sorvegliare un membro non precisato dello staff del presidente Trump.

Lo scorso ottobre c’è stato anche un processo, quello all’ex agente Igor Danchenko, un analista russo che vive in America e che era stato una delle fonti consultate durante le indagini di Mueller, per falsa testimonianza, da cui però Danchenko è stato assolto per insufficienza di prove.

Corsa di Pence?

Un bottino misero per un’indagine che ha speso molto e che si prometteva di scoperchiare la madre di tutti i complotti politici. L’altro personaggio molto vicino a Trump è l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani. A partire dal 2016, lui che aveva la nomea di repubblicano moderato e liberal sui diritti civili, è diventato uno degli alleati più stretti di Donald Trump, soprattutto durante il tentativo di rovesciare per via legale il risultato delle elezioni presidenziali del 2020.

Appartengono all’immaginario collettivo la sua conferenza stampa nel parcheggio di un centro commerciale dismesso e un altro intervento in cui la tinta per capelli gli colava sulla fronte, oltreché naturalmente le sue fantasiose teorie sui possibili autori del “furto del secolo”. Una totale distruzione di quella che era una delle reputazioni politiche più solide d’America.

In questi giorni poi, è arrivata un’ulteriore accusa, oltre a quelle legate all’eversione trumpista: una sua ex collaboratrice, Noelle Dunphy, assunta nel 2019, lo accusa di averla sottoposta ad umilianti abusi sessuali: inclusa la costrizione a un rapporto orale durante una chiamata per «sentirsi come Bill Clinton». Una causa civile che riguarda il pagamento di stipendi arretrati e un risarcimento di 10 milioni di euro.

Una fine ingloriosa per una carriera che avrebbe potuto condurlo alla Casa Bianca. Come non citare anche chi, per un breve periodo, ha rappresentato la speranza di un ribaltamento in extremis del verdetto elettorale 2020: il vicepresidente Mike Pence, il quale invece si attenne al ruolo notarile prescritto dalla Costituzione americana e non dalle fantasiose interpretazioni di alcuni uomini di fiducia di Trump, tra cui lo stesso Giuliani.

Pence si trova in un limbo particolare: da un lato è detestato dai trumpiani, senza che questo gli abbia fornito un particolare credito in quella ridotta conservatrice che vuole superare il trumpismo una volta per tutte. Facile quindi che le sue malcelate ambizioni presidenziali per il 2024 finiscano in un nulla di fatto. Come la carriera di chi, per un breve periodo, si è considerato l’uomo decisivo per le sorti del trumpismo.

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