L’appuntamento con le urne del 14 maggio nel paese della Mezzaluna sul Bosforo vede Recep Tayyip Erdogan, il presidente uscente, 69 anni, impegnato in una serrata corsa alla riconferma sullo sfidante Kemal Kilicdaroglu, 74 anni, leader di una coalizione di 6 partiti e segretario del partito laico e Repubblicano Chp. I sondaggi sono in equilibrio con un leggero vantaggio per l’ipotesi di un cambio di potere dopo 20 anni di dominio assoluto del partito islamico Akp e del suo leader indiscusso.

Per il settimanale britannico Economist si tratta delle elezioni più importanti del 2023, il cui esito potrebbe mandare a casa un presidente che ha assunto nel corso degli anni atteggiamenti sempre più autoritari con giornalisti, intellettuali e opposizioni. Famosa la frase dell’ex premier italiano, Mario Draghi che definì Erdogan «un dittatore con cui bisogna collaborare».

Eppure non tutti auspicano un cambio di potere ad Ankara: c’è un venticello che soffia soprattutto da alcune cancellerie europee secondo cui se Erdogan dovesse tornare all’atteggiamento costruttivo e collaborativo tenuto con la Ue in campo doganale e sui migranti nel primo decennio del suo mandato, allora sarebbe meglio puntare sull’usato sicuro piuttosto che su uno sfidante che resta per molti versi un’incognita, appartenente alla minoranza religiosa alevita in un paese a grande maggioranza sunnita e che non sembra avere la stessa capacità di leadership in una nazione strategica per la difesa del fronte sud della Nato.

La Turchia ospita con un accordo con la Ue, siglato ai tempi dell’ex cancelliera tedesca, Angela Merkel, circa 4 milioni di profughi siriani di cui 210mila hanno diritto di voto in Turchia. Questo è un accordo strategico che ha dato a Erdogan un enorme potere negoziale con Bruxelles. Alcuni osservatori temono che ogni cambiamento ad Ankara potrebbe rivelarsi un salto nel vuoto in un momento molto delicato per la questione dei migranti in vista del voto del parlamento europeo.

Gli investitori

Poi c’è il mondo degli investitori internazionali che un tempo erano molto presenti sul Bosforo, ma oggi si sono ritirati dal mercato turco a causa delle politiche monetarie non ortodosse di Erdogan, che ha impedito il rialzo dei tassi e ha alimentato un’inflazione sopra l’80 per cento. Certo ci sono sempre i prestiti del Qatar e forse dell’Arabia saudita che sono arrivati a riequilibrare il deficit strutturale delle partite correnti (circa al 6 per cento del Pil) e le riserve in valuta straniera: ma il paese ha una scarsa capacità di risparmio e deve attirare investimenti stranieri per finanziare i disavanzi commerciali e sostenere la lira.

Oggi secondo il Financial Times meno dell’1 per cento del debito pubblico interno della Turchia è in mano agli stranieri, in calo rispetto a circa un quarto di dieci anni fa. Eppure proprio l’FT ha dato notizia di un riavvicinamento di Erdogan con Mehmet Simsek, un ex ministro delle Finanze dal 2009 al 20015 nonché economista a Londra della banca d’affari americana Merrill Lynch.

Simsek, di umili origini e che ha lavorato all’ambasciata americana in Turchia come senior economist dal 1993 al 1997, era molto stimato dagli addetti ai lavori, ma nel 2015 è stato sostituito da Berat Albayrak, il genero di Erdogan con effetti disastrosi.

Da quel momento Erdogan ha cominciato a parlare di teorie cospirazioniste e della «cricca dei tassi d’interesse» associandola alle agenzie di rating internazionali. Il riavvicinamento del presidente all’ex ministro Simsek sembrerebbe un’apertura agli investitori e il rientro nei ranghi dell’ortodossia economica.

Comunque, chiunque vinca, dovrà affrontare l’enorme compito della ricostruzione delle zone terremotate che secondo l’Onu dovrebbe costare 100 miliardi di dollari.

Il declino

Gli investitori stranieri dal novembre 2002, anno della vittoria dell’Akp, il partito di Erdogan, hanno investito massicciamente in Turchia anche grazie alle riforme fatte dal precedente ministro delle Finanze, Kemal Dervish. Il reddito pro capite è passato in dieci anni da 2.500 dollari a 10mila facendo uscire milioni di persone dalla povertà. Ma dieci anni fa il Prodotto il prodotto interno lordo della Turchia ha iniziato a diminuire rendendo molti turchi di nuovo più poveri e più insicuri.

Gli imprenditori turchi anatolici, definiti anche i “calvinisti islamici”, per la loro dedizione al lavoro e il loro conservatorismo religioso, sono stati beneficiati da un ventennio al potere dell’Akp e sono convinti, in grande maggioranza, che non ci sia una reale alternativa politica ad Erdogan.

Secondo il New York Times che ha svolto un’inchiesta a Kayseri, capitale di questo nuovo capitalismo islamico nella Turchia centrale, l’antica Cesarea, molti elettori hanno mostrato che ammirano ancora la sua leadership mentre altri «non riescono a immaginare nessun altro al comando». Per questo la partita elettorale in Turchia è ancora molto aperta.

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