Ci risiamo. Come nel film Ricomincio da capo di Harold Ramis, l’Argentina si ritrova periodicamente a rivivere sempre lo stesso incubo. Perché le sue fragilità sono strutturali e con radici antiche.

Soprattutto in ambito economico nel quale, da vent’anni a questa parte, ciclicamente riemerge lo spettro del default del dicembre del 2001. Allora, dopo circa tre anni di recessione, il paese collassò, patendo la più grave crisi della sua storia; crisi che fu, simultaneamente, istituzionale, politica, sociale e, appunto, economica.

È, pertanto, almeno da lì che bisogna partire per comprendere le problematiche che si trova a dover gestire l’attuale governo di Alberto Fernández nell’ultimo spezzone del suo mandato, nonché l’ipoteca che peserà sul presidente che gli argentini sceglieranno in ottobre prossimo.

Per uscire faticosamente dall’abisso in cui era sprofondata, la nazione rioplatense dovette attendere il maggio del 2003, quando il peronista Néstor Kirchner fu eletto alla presidenza e il Pil riprese a crescere.

Tuttavia, in quel biennio, l’Argentina si ritrovò nel mezzo di una tempesta perfetta, fatta di insolvenza del debito, esaurimento delle riserve, drastici tagli agli stipendi nel pubblico impiego e alle pensioni, incremento della tassazione, austerity permanente.

Il tutto, come se non bastasse, con le pressioni del Fondo Monetario Internazionale, che esigeva riforme ancor più recessive.

A scatenare l’uragano della crisi e a creare il panico tra gli argentini era stata l’improvvida decisione del governo di Fernando de la Rúa di fissare un netto limite alla quantità di denaro prelevabile dai conti bancari (il cosiddetto corralito), allo scopo di arginare la fuga di capitali.

L’effetto fu quell’ondata di agitazione politico-sociale che ebbe come protagonisti indistintamente i piqueteros (disoccupati organizzati), settori popolari e ceti medi, e che bloccò il paese per diverso tempo.

Stato di cose che portò un de la Rúa incapace di gestire la situazione a rassegnare le dimissioni, e alla nomina di ben quattro presidenti da parte del parlamento in nemmeno 14 giorni.

Di questi, solo l’ultimo riuscì a governare, senza essere capace di modificare una situazione fatta di fallimenti di imprese, iperinflazione, disoccupazione e crescente povertà (oltre il 55 per cento della popolazione nell’ottobre del 2002), ma che almeno traghettò il paese alle elezioni del 2003.  

Spettò, quindi, a Néstor Kirchner il compito di risollevare la disastrata economia nazionale e ridare credibilità alle istituzioni in patria e all’Argentina sul piano internazionale. Obiettivi proseguiti, a partire dal 2007, dalla consorte Cristina Fernández de Kirchner, al potere sino al 2015.

Risultati del kirchnerismo

In meno di un decennio il kirchnerismo riuscì nell’intento di riottenere la fiducia del mondo economico-finanziario, nonché quella del ceto medio e di almeno una fetta dei settori popolari.

Non a caso, in questo lasso di tempo fu in grado di aggiudicarsi tutte le elezioni parlamentari, eccetto che nel 2009 (unico anno in negativo del Pil anche in seguito alla crisi del 2008), un predominio, a dire il vero, agevolato da un’opposizione frammentata e scarsamente rappresentativa.

La forte personalità dei due coniugi si palesò anche sul piano internazionale, a cominciare dal rapporto con gli organismi finanziari, come testimoniarono la decisione di Néstor Kirchner di opporsi al pagamento dell’esorbitante debito (125 miliardi di dollari), missione impossibile in un contesto di povertà diffusa, e l’opera di convincimento portata avanti nei riguardi dei possessori privati stranieri di titoli del debito, per indurli ad accettare una drastica riduzione del loro valore (in cambio della sicurezza della riscossione).

Durante il suo mandato l’Argentina poté godere di un contesto maggiormente favorevole alle esportazioni e degli effetti positivi di un incremento dell’afflusso turistico per via della svalutazione.

Tuttavia, il governo Kirchner si caratterizzò per una ferma politica di sostegno alla produzione industriale e per un efficace approccio in materia fiscale e finanziaria. Già in quel periodo, ma più marcatamente nel corso della presidenza di Cristina Fernández, il kirchnerismo si contraddistinse per un evidente nazionalismo in ambito economico, a differenza di quanto facevano le sinistre “riformiste” al potere a quel tempo nella regione, e in totale controtendenza rispetto al passato recente del paese.

Nazionalismo che toccò il punto più alto con la statalizzazione dei fondi pensionistici e l’espropriazione di quelle imprese che erano finite nelle mani di privati stranieri alcuni anni prima.

La crescita del Pil, che superò il 7,5 per cento, agevolò anche un maggior attivismo in campo sociale, che si manifestò attraverso il controllo sui prezzi, l’adozione di sussidi di disoccupazione e l’avvio di lavori pubblici.

Grazie anche a una favorevolissima congiuntura internazionale, di cui beneficò tutta la regione, i risultati furono lusinghieri sino al 2013 per poi peggiorare negli ultimi anni della presidenza di Cristina Fernández. Così, quando anche la presidenza di quest’ultima giunse al capolinea, il sonno degli argentini riprese a essere turbato dall’incubo del 2001.

Presente in affanno

Venendo all’oggi, analoga sorte è toccata ai successori, Mauricio Macri e l’attuale capo dello Stato, Alberto Fernández, della coalizione Frente de Todos. Il primo, al potere dal 2015 al 2019, pur contando sul sostegno di gran parte del mondo imprenditoriale e del favore degli organismi finanziari internazionali e dei principali attori occidentali, non è riuscito a far meglio dei Kirchner, anzi.

Il marcato neoliberismo, incentrato sull’apertura ai mercati esteri e l’abbandono di ogni forma di protezionismo, a causa anche del peggioramento del quadro economico internazionale, non ha impedito una profonda recessione, costringendo, nel 2018, il governo Macri a una pesante svalutazione monetaria e a sottoscrivere con il Fmi un prestito record di 57 miliardi di dollari (che ha fatto diventare l’Argentina il principale debitore dell’organizzazione).

In cambio, l’esecutivo argentino si è impegnato a varare un piano di riforme che ha peggiorato la situazione economica e ha provocato un drastico aumento della povertà.

Il mandato di Macri si è chiuso, pertanto, con insuccessi su ogni fronte, lasciando un paese che nel 2019 era soffocato da un enorme debito di 323 miliardi di dollari (ovvero, oltre il 90 per cento del PIL), un’inflazione al 53,8 per cento e un Pil inferiore del 2 per cento rispetto all’anno precedente.

Con una eredità così pesante e con problemi strutturali mai risolti, non ci si poteva attendere che il governo in carica facesse miracoli. Gli argentini si auguravano, però, che almeno riuscisse a invertire la tendenza sul piano dei dati macroeconomici e dei principali indicatori sociali.

E, invece, sebbene con l’attenuante della pandemia, il bilancio di Alberto Fernández non è lusinghiero. Il tentativo di operare una sorta di sintesi tra l’interventismo statale di stampo kirchnerista, in particolare del cristinismo, e un neoliberismo peronista, quindi di un’economia sociale di mercato, non ha dato i frutti attesi.

Tutti i principali indicatori economici e sociali confermano, infatti, che l’Argentina attualmente è in forte affanno e le previsioni dei prossimi mesi sono ancora più fosche.

Stando ai dati dell’Ocse, dopo il drastico peggioramento del 2020 e un andamento oscillante nel biennio seguente (causati in primo luogo dall’emergenza sanitaria), il Pil dovrebbe crescere quest’anno di appena lo 0,5 per cento (l’anno prossimo dell’1,8 per cento).

Il tasso di inflazione su base annua ha raggiunto, l’anno scorso, addirittura una cifra record negli ultimi tre decenni (circa il 95 per cento e le proiezioni di questo primo scorcio di anno sono ben peggiori, cioè intorno al 98,8 per cento), mentre la disoccupazione si attesterebbe intorno al 7 per cento, cioè agli stessi livelli pre pandemia e con una elevata incidenza del lavoro informale (circa il 40 per cento).

Quanto alla povertà, quella urbana l’anno scorso è stata superiore al 40 per cento (circa un terzo della popolazione totale), mentre quest’anno dovrebbe essere del 37 per cento, due punti percentuali in più rispetto al periodo pre pandemico, mentre l’indice di indigenza di poco superiore all’8 per cento.

Ad aggravare una situazione già critica, ha contribuito la rinegoziazione con l’Fmi dell’ingente debito contratto da Macri, avviata al principio dell’anno scorso.

Il governo attuale ha, infatti, siglato un nuovo accordo della durata di 30 mesi, in base al quale si posticipano le scadenze con tale organismo al fine di migliorare le riserve a breve termine. Tale intesa è stata duramente contrastata dal kirchnerismo, soprattutto dalla vicepresidente Cristina Fernández e dal figlio Máximo Kirchner, astro nascente del peronismo di sinistra, indebolendo l’esecutivo e, di fatto, approfondendo le latenti divisioni e tensioni esistenti all’interno del Frente de Todos; coalizione divisa oggi in due blocchi contrapposti: quello dei kirchneristi, coeso e che si riconosce nella leadership di Cristina Fernández, e quello che si potrebbe definire “albertista”, debole ed eterogeneo.

Inoltre, all’interno del peronismo il clima è diventato ancor più rovente dopo la condanna, nel dicembre scorso, di Cristina Fernández per frode fiscale. Non un buon viatico per questa famiglia politica in vista delle prossime elezioni presidenziali. E, se si tiene conto dei contrasti e delle incertezze che animano la destra politica, non una buona notizia per gli argentini che temono l’arrivo di una nuova tormenta.

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