Sono molte le nubi che si addensano sul cessate il fuoco fra Israele e Hamas. Se, come scritto su queste pagine all’indomani della tregua col Libano, è comprensibile che Hamas, derelitta al punto da dimostrarsi incapace di nominare un nuovo capo e rimasta totalmente isolata dopo il ritiro dal conflitto di Hezbollah, fosse disponibile ad un accordo per trattare una qualche forma di sopravvivenza (non solo politica, vista la prassi degli omicidi mirati ripresa in grande stile dall’intelligence israeliana nel 2024), non si vede la convenienza per il governo Netanyahu, che non ha risolto nemmeno mezza delle profondissime contraddizioni che lo hanno abitato dal 7 ottobre ad oggi.

Per come sembra configurarsi, la fine delle ostilità riporta esattamente le lancette al punto di partenza di un Medio Oriente in cui il fronte iraniano è certamente indebolitissimo, ma vivo in tutte le sue componenti. Tutto farebbe pensare, seguendo il consueto schema jihadista dell’inabissamento, ad una graduale riorganizzazione per essere pronti tra qualche anno a colpire lo Stato ebraico, usandolo come sponda per accaparrarsi il favore delle masse islamiche in questa eterna lotta egemonica fra sciiti e sunniti, che ha portato anche gruppi legati alla Fratellanza musulmana ad avvicinarsi a Teheran.

Per di più, l’accordo terremota la maggioranza di governo, dove Ben-Gvir e Smotrich paiono pronti a superare i recenti dissapori per fare fronte comune contro una decisione che interpretano come una resa, tentando di mascherare il proprio progetto di annessione da politiche di sicurezza a cui israeliane e israeliani di ogni colore politico sono da sempre sensibili. E vai a dar loro torto dopo l’eccidio del 7 ottobre, ultima tappa di una catena ininterrotta di attacchi iniziata il giorno stesso della proclamazione d’indipendenza nel 1948.

Perché, dunque, fermarsi qui? Perché proprio ora, dopo aver resistito ad ogni forma di pressione interna ed esterna per quattordici, lunghissimi mesi? Bibi non può nemmeno sventolare la bandierina dello smantellamento di Hamas, che ancora lancia razzi sul territorio israeliano, chiamando alla reazione Tsahal, per poi fornire il quotidiano bollettino di morti recepito in maniera totalmente acritica dai media occidentali, che lo rilanciano alle proprie opinioni pubbliche.

Guerra ibrida in salsa Affaire Dreyfuss, con una propaganda tesa a stimolare il mai sopito immaginario antisemita, poi sfruttata dalla sigla Globalize Intifada che abbiamo visto in azione anche a Bologna l’altro giorno. Eventi che il Presidente De Paz non ha affatto minimizzato, ma precisato, come da sua intervista al portale di informazione ebraica riflessimenorah.it.

Difficile davvero comprendere questo cambio di passo israeliano proprio ora che l’obiettivo grosso, la caduta degli ayatollah in Iran, pareva alla portata quanto mai prima. Scartando l’ipotesi di voler regalare un riconoscimento a Biden prossimo al congedo (i rapporti fra i due hanno raggiunto punte di tensione difficilmente rintracciabili nella storia delle relazioni israelo-americane), forse è proprio nell’avvicendamento alla Casa Bianca che possiamo scorgere una risposta.

Siamo, va detto, nell’ambito della speculazione. La minaccia scomposta che Trump ha rivolto a Hamas pochi giorni fa, come fosse possibile immaginare per Gaza uno scenario più catastrofico rispetto a quello a cui stiamo assistendo, era il suo modo per ribadire l’ovvio: gli Stati Uniti vogliono un accordo per ridisegnare un Medio Oriente sulla base degli Accordi di Abramo, che hanno resistito all'onda d’urto del conflitto. Prima si chiude la guerra, prima si riprende in mano il dossier, che, non va dimenticato, prevede la costruzione di un gasdotto in grado di proporsi all'Europa come alternativa al gas russo, con la partnership di egiziani, giordani e sauditi. Insomma, giochi enormi, che vanno bel al di là delle contingenze attuali.

Se questo progetto prevederà un colpo di grazia a Teheran ed una riorganizzazione del fronte palestinese ad oggi non è dato sapere. Bisognerà aspettare dopo il 20 gennaio.

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